RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

Il senso di Amina per la neve

Nulla è più difficile della semplicità. Forse per questo Gino Marinuzzi, con spirito paradossale all'apparenza e impeccabile veridicità nella sostanza, definiva La sonnambula l'opera più complicata per un direttore d'orchestra: alla pari con L'elisir d'amore, specificava poi, corroborando il paradosso. I due gioiellini agresti, delicati, ironici, patetici del nostro melodramma, con cui Felice Romani servì inarrivabilmente Bellini e Donizetti, intesi come non plus ultra di complessità interpretativa e difficoltà della concertazione? Certo che sì: l'esiguo numero di grandi bacchette che vi si sono accostate stanno lì a confermarlo. Della Sonnambula di Marinuzzi, quanto a testimonianze sonore, purtroppo niente ci resta, mentre i pochissimi mattatori del podio documentati in disco (solo Bernstein, in sostanza) hanno avallato una tal mole di tagli destrutturanti da vanificare, in parte, l'altissima qualità del loro lavoro: a svelarci la complessità nascosta dietro la facciata fragile e gentile – il sonnambulismo non come favola innocua ma rapinoso effetto dell'eros, certe inquietudini da schwarze Romantik che s'insinuano sottopelle – restano dunque, più che altro, alcuni grandi cantanti (soprattutto ieri) o qualche regista di talento (soprattutto oggi). Pur senza personalità di spicco, La sonnambula in scena al Teatro delle Muse di Ancona ha offerto un valido contributo per una ricognizione non banale della drammaturgia belliniana.

Cristian Taraborrelli, come scenografo, aveva già firmato una Sonnambula per la regia di Giorgio Barberio Corsetti di forte segno fantastico e visionario. Torna ora su quest'opera anche in veste di regista, in un allestimento nuovo non solo per budget – qui assai più limitato – ma per concezione. Siamo nei paraggi del “teatro povero”, inteso non tanto come pochezza di mezzi quanto plusvalore espressivo: le montagne svizzere, lungi dal venire restituite oleograficamente (l'unico tocco simpaticamente rétro, semmai, viene dai costumi di Angela Buscemi), si trasformano in una sorta di paesaggio dell'anima, dove basta un cumulo di neve per rendere il “tempo sospeso” che grava sulla sonnambula Amina. E sarà quella stessa massa cristallina il più eloquente specchio dello sperdimento di Elvino, o della percezione confusa – luoghi della giovinezza versus quegli stessi posti rivisti con gli occhi della maturità – che per un momento stordirà l'unico sguardo razionale e illuminista della vicenda: quello del Conte Rodolfo.

Se la scatola scenica è nuda, i numerosi video che s'innestano evitano però d'integrare il “non visto”. Appena sbozzato all'apparenza ma rifinitissimo nella sostanza, il suggestivo bianco e nero filmato da Fabio Massimo Iaquone amplifica gli spazi mentali piuttosto che quelli fisici, indagando le emozioni dei personaggi: ed è l'occasione per aprire uno spiraglio pure su figure di solito private di retrogusto psicologico come Lisa e Teresa, oltre che per renderci più partecipi del dramma di Elvino, quando, credendosi tradito, lo vediamo lanciare compulsivamente manciate di neve con un sorriso d'insensata soddisfazione.

Amministrato da una bacchetta (Alessandro d'Agostini) non sempre coerente nello stacco dei tempi, il cast soffre dello sbilanciamento tra una protagonista di voce pallida, ancorché ben emessa, e una “seconda donna” dai mezzi più sostanziosi. Certamente il volitivo personaggio di Lisa – specie in un'edizione quasi integrale come questa, dove il ruolo ha maggior agio di svilupparsi – non può che trarre giovamento dalla corposa duttilità canora dell'ottima Maria Sardaryan. Tuttavia, che Amina appaia più sfocata della rivale non rientra nelle regole del gioco. Sarebbe però ingeneroso non sottolineare la compenetrazione con cui Veronica Granatiero affronta il versante più liliale dell'eroina di Bellini – i fremiti dark restano invece disattesi, com'è nella tradizione dei soprani leggeri – ed è palese il tentativo d'imprimere una rendita espressiva a certi limiti naturali del proprio strumento (nel duetto col tenore, la frase “Ma la voce, o mio tesoro, non risponde al mio pensier” qui suona quasi autobiografica). Ne deriva un'interpretazione corretta e attenta, che sul finale approda a un “Ah! Non credea mirarti” di ragguardevole malinconia elegiaca, prima che, nella cabaletta, la voce inizi a stancarsi.

Più privilegiata la qualità sonora di Marco Ciaponi, tenore capace di slanci siderali in acuto all'interno, però, di un'emissione sempre scorrevole. Assenza di forzature, dizione ottima e presenza scenica simpatica – da Nemorino, quasi – contribuiscono poi a redimere l'ottuso e querulo personaggio di Elvino, giustificandone debolezze e risentimenti. Convince meno il Conte Rodolfo di Alessandro Spina: basso-baritono piuttosto che “basso cantante” (non a caso è la relativamente alta tessitura della cabaletta il momento in cui appare più a suo agio), autorevole per risonanza ma non quanto ad arte del “legato” e, sul piano interpretativo, più playboy in disarmo che maturo libertino. Ad aprire uno spiraglio nuovo sul suo personaggio, invece, è Isabel De Paoli: che, grazie pure a uno strumento in punto di diritto fin troppo chiaro per il contraltile personaggio di Teresa, fa della madre adottiva di Amina non la classica mater dolorosa contadina, ma un personaggio ancor giovane e sfiorito. Quasi una sorella maggiore della protagonista.

Paolo Patrizi

16/10/2019

La foto del servizio è di Giorgio Pergolini.