RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

Tra rêves e souvenir

In un certo senso, Les Pêcheurs de perles sono come Il trovatore: gli eventi accaduti prima che si alzi il sipario sono più stringenti – e, nel caso di Bizet, non di poco – rispetto a quelli che vediamo in scena. Di conseguenza, il libretto è tutto un florilegio di «Ami de ma jeunesse», «Après de si longs jours», «Les rêves des jours passés», «O souvenir charmant»: rimorsi, rimpianti e nostalgie pesano più di qualunque azione. Quindi, a ben vedere, è tutt'altro che arbitrario il radicale, ma coerentissimo ripensamento drammaturgico operato dal giovane collettivo teatrale fiammingo FC Bergman in questi Pêcheurs – loro prima regia operistica – andati in scena lo scorso anno ad Anversa e riproposti, adesso, all'Opéra di Lille: una di quelle operazioni che rivoltano un'opera come un guanto per estrarne, in altra veste, l'essenza più profonda.

Cosa hanno fatto i teatranti di FC Bergman? Hanno restituito i turbamenti di Bizet, e materializzato i desideri impalpabili veicolati dai suoi ipnotismi melodici, dilatando i tempi tra quell'ideale prologo prima dell'opera e il suo sequel che è l'opera stessa: Nadir e Zurga non sono due giovani amici che rimestano nell'adolescenza di ieri sera, ma due vecchi. L'arcaica isola di Ceylon che fa da cornice alla vicenda – i suoi pescatori di perle e i suoi cacciatori di tigri, le superstizioni tribali e i riti sanguinari – perde ogni connotazione esotico-bozzettistica diventando puro luogo della reminiscenza, resa dei conti di chi è giunto sul passo estremo: un “posto delle fragole” di bergmaniana memoria, per usare un'immagine cui gli autori dello spettacolo – dato il nome della loro compagnia – non possono non aver pensato. L'azione “vera”, invece, si svolge in uno spazio dove l'incanto cede il passo alla putrefazione, proprio come certe melodie bizetiane (anche nella Carmen: l'aria del fiore presenta le stesse caratteristiche) in cui il profumo è così intenso da sottintendere che il frutto sta per marcire. Perché siamo in un ospizio.

I due amici e il loro comune oggetto di desiderio qui si ritrovano (ma potrebbe essere un'illusione del solo Zurga, l'unico dei tre a non veder coronato il proprio sogno d'amore) in una casa di riposo: anche questa, al pari della Ceylon del libretto, alle prese con riti feroci ma inevitabili. Tra capitomboli dalle carrozzine e scaricamenti nei cassetti della camera mortuaria, lo spettacolo offre momenti da teatro della crudeltà, che virano in straniamento quando pure Leïla arriva nell'ospizio, decrepita all'apparenza ma freschissima nella voce e quasi atletica nelle movenze. Il suo repentino passaggio, quando Nadir imbolsito e cadente tenta un ultimo approccio sessuale, dalle fattezze di vecchia avvizzita alla gioventù magnetica del soprano Gabrielle Philiponet è solo uno dei tanti momenti magici dello spettacolo: che nel frattempo, grazie all'impianto scenico ruotante, ci ha portato da quel desolato interno della terza età a un Oceano Indiano così finto e stilizzato (gabbiani di carta, onde marine – speculari a certi cullanti ondulamenti della partitura – costruite con sapienza artigianale) da risultare più vero del vero.

In quest'ospizio affacciato sull'acqua, dove i ricordi vanno e vengono insieme ai flutti, i protagonisti si alternano – in un incessante cortocircuito della memoria – ai loro “doppi” da giovani: sono immagini da brivido Leïla e Nadir adolescenti nudi, che giocano, lottano, ridono e si avvinghiano alla scoperta del sesso e della vita, mentre Nadir e Zurga vecchi li osservano trasognati, come si guarda all'incanto di un mondo che non c'è più. Si tratti di azzardo registico o pura poesia, sta di fatto che pagine “retrospettive” quali Je crois entendre encore o il duetto Au fond du temple saint assumono, così, uno spessore del tutto inedito. E l'epilogo con Zurga che va infilarsi nella cella frigorifera dell'obitorio può leggersi come un tentativo di riproporre, in tutt'altra forma, il finale apocrifo e alternativo dell'opera: dove il baritono saliva sul rogo per salvare i due amanti, ma anche per tacitare il sapore della sconfitta.

Poi, certo, i momenti incompatibili con tale ricostruzione drammatica vengono sacrificati. Ciò permette di proporre in cento minuti senza intervallo i tre atti di Bizet, ma qualche forzatura la crea: a cominciare dalla rinuncia al personaggio di Nourabad, l'inflessibile sacerdote di Brahma qui eliminato come personaggio, mantenendo però alcune sue battute – affidate alla declamatoria e ben timbrata vocalità bassobaritonale di Rafal Pawnuk – nella figura di Zurga giovane, che assume così un profilo più negativo o, almeno, più ambiguo. Il direttore Guillaume Tourniaire ha mostrato comunque di condividere le manipolazioni degli FC Bergman, mettendosi al servizio dei meccanismi dello spettacolo ma non svilendo le ragioni della musica. Ne scaturisce una concertazione compatta, senza derive nel languore estetizzante e, semmai, incline a restituire talune suggestioni wagneriane, ben presenti sottotraccia nel melodramma “esotista” francese del secondo Ottocento. Quanto agli interpreti, reggono il gioco registico da artisti duttilissimi: in involucro da vecchia o in tutto il suo fulgore femminile, la Philiponet sfoggia mezzi importanti, anche se i passaggi di coloratura le sono meno congeniali delle ampie campate liriche; Marc Laho crea una fertile dialettica tra il Nadir stempiato e sovrappeso che pennella scenicamente e il canto sempre scorrevole che promana dalla sua voce; Stefano Antonucci è baritono di timbro pallido reso ancor più arido dagli anni, ma dicitore signorile e interprete compenetrato. Quanto al coro dell'Opéra di Lille (gli abitanti di Ceylon, rectius gli ospiti dell'ospizio), coristi così attori in Italia possiamo sognarceli: ed è questa, alla fine, l'ultima rêverie cui lo spettacolo offre il destro.

Paolo Patrizi

9/2/2020

La foto del servizio è di Simon Gosselin.