RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

Il debutto di Lucrezia Remigio

Dopo la riscoperta dell'Ange de Nisida, creduto irrimediabilmente perduto e invece ritrovato grazie a un lungo lavoro di ricostruzione («[…]; ma questo… questo perierat et inventus est»), l'edizione 2019 del Donizetti Opera Festival di Bergamo propone Lucrezia Borgia , su libretto di Felice Romani – riduzione della Lucrèce Borgia di Victor Hugo – rappresentata per la prima volta al Teatro alla Scala di Milano il 26 dicembre 1833 (data che, come consuetudine dal 1817, apriva la stagione lirica di Carnevale e Quaresima). L'opera fu composta in luogo di una prevista Saffo , inizialmente commissionata a Saverio Mercadante. La scelta di un soggetto scabroso, peraltro derivato da Hugo, il “satanico” enfant terrible del Romanticismo francese (che quanto a reputazione non se la passava bene, benché in altri ambiti sostenesse idee illuministe come l'abolizione della pena capitale: si veda in proposito L'ultimo giorno di un condannato a morte), unito a un certo grado di sperimentalismo della musica, osteggiarono inizialmente il buon accoglimento dell'opera. Non passò molto tempo, però, che essa prese a circolare con buon favore di pubblico (e interessò fior di musicisti: Franz Liszt le dedicò addirittura una grande e virtuosistica fantasia per pianoforte in due parti, le Réminiscences de Lucrezia Borgia S400, una buona ventina di minuti di musica funambolica e spettacolare). E, com'era consuetudine per l'epoca, questa circolazione comportò adattamenti, rivisitazioni e riscritture varie, per venire incontro sia ai gusti delle piazze dove venne presentato, sia alle esigenze delle locali compagnie di canto (paese che vai, cantanti che trovi). Ma non solo. È probabile che Donizetti abbia voluto sperimentare soluzioni differenti, soprattutto nel finale, per trovare quella più convincente dal punto di vista drammaturgico. Nel corso del tempo queste operazioni di taglia-e-cuci, di metti-e-togli, portarono l'autore a licenziare una decina di versioni della sua Lucrezia. E non è detto che l'ultima in ordine cronologico sia quella che egli considerasse definitiva.

Le due versioni principali restano quella della Scala di Milano del 1833 e del Théâtre-italien di Parigi del 1840, in occasione della quale Donizetti taglia la seconda strofa del cantabile di Lucrezia, Com'è bello, sostituendola con la cabaletta S'involi il primo a cogliere (nel Prologo), inserisce la romanza di Gennaro Anch'io provai le tenere, a inizio secondo atto, al posto del duetto tra Gennaro e Maffio Orsini (questo perché disponeva di un tenore più valido rispetto a Milano), mentre nel finale opera la soppressione della cabaletta di Lucrezia e l'introduzione dell'arioso di Gennaro morente Madre, se ognor lontano.

Sarebbe più corretto parlare di Lucrezie, quindi. Al plurale. La nuova edizione critica curata da Roger Parker e Rosie Ward, presentata in questo Festival per la prima volta, lo fa, tentando un'operazione, potremmo dire, di mixaggio. Per esplicita ammissione, «la versione Bergamo 2019 non coincide esattamente con nessuna delle versioni storiche realizzate da Donizetti […]. È piuttosto un incrocio di due di esse: la prima per La Scala del 1833 e la versione realizzata per il Théâtre Italien a Parigi nel 1840 […]. L'edizione realizzata per il Donizetti Opera 2019 conserva tutti i cambiamenti adottati a Parigi nel 1840 – il cantabile con cabaletta di Lucrezia nel Prologo, la cabaletta rifatta a Firenze [in occasione della prima ripresa dopo Milano, 13/10/1836] per Lucrezia e Alfonso nel primo atto, la Romanza di Mario [pseudonimo di Giovanni Matteo De Candia, il Gennaro di Parigi 1840] dopo il coro, l'arioso finale per Gennaro con la cabaletta scorciata per Lucrezia – ma mantiene il Duetto Orsini-Gennaro, che fu cantato a Milano nel 1833 e tagliato a Parigi nel 1840» (dal saggio introduttivo di Roger Parker, trad. Livio Aragona). Chissà se l'autore avrebbe approvato?

La prima delle tre repliche di Lucrezia Borgia “Bergamo 2019 edition” previste per il Festival, il 22/11/2019 (giorno di Santa Cecilia: che ci abbia messo lo zampino?) al Teatro Sociale di Bergamo, non avrebbe potuto avere esito migliore. Il merito principale della riuscita è da ascrivere alla sapiente ed equilibrata direzione di Riccardo Frizza, alla testa dell'Orchestra Giovanile Luigi Cherubini e della Banda di palcoscenico del Conservatorio Gaetano Donizetti di Bergamo (quest'ultima diretta da Alberto Zanardi), ma soprattutto al cast vocale. Brilla sugli altri Carmela Remigio, al suo debutto nel rôle titre. Il soprano pescarese, premio Franco Abbiati della critica musicale italiana nel 2016, con alle spalle una fortunata e meritatissima carriera spesa in ruoli principalmente belcantistici (ma anche verdiani e novecenteschi), incarna la Lucrezia di Donizetti con pathos energico e accorato. Sulla scena si cala in una donna energica e viscerale, sbozzando un personaggio a tutto tondo grazie a uno scavo psicologico approfondito, in grado di trarre sfumature di espressione modulate in base al contesto, dalla figura languida della madre che contempla Gennaro dormiente alla strenua paladina che lo difende davanti a Don Alfonso.

Emozionanti le scene in cui, chiamata a mescere il vino avvelenato nella coppa di Gennaro, esprime una rabbia repressa con incredibile verosimiglianza, o in cui prorompe di fronte agli amici di Gennaro avvelenati con un veemente «Io son la Borgia». Se questo è il debutto, c'è da chiedersi quali altre vette di interpretazione raggiungerà alle repliche successive (è prevista una ripresa del titolo a Trieste a gennaio 2020 nella versione Milano 1833). E, se da un punto di vista interpretativo si dimostra attrice convincente, non da meno è l'aspetto vocale, che la conferma uno dei soprani di maggior calibro di questo repertorio: dal belcanto brillante, scurendo e rinforzando il timbro, affronta ora ruoli di maggior peso drammatico (per i quali ora è più tagliata), come appunto quello di Lucrezia o di Amelia nel Castello di Kenilworth, nel quale ha avuto modo di distinguersi durante il Donizetti Opera Festival del 2018.

Degno contraltare maschile è il Gennaro di Xabier Anduaga, voce tornita, potente, passata da un ambito più leggero a ruoli decisamente più impegnativi, dove riesce a esprimere tutto il suo potenziale. Convincente, dopo un ingresso insicuro e non a fuoco, il Don Alfonso di Marko Mimica, che si distingue per una voce di basso non eccessivamente scura ma espressiva, dalla splendida e intelligibile sillabazione. Mimica raggiunge l'acme delle sue capacità drammatiche nel duetto Lucrezia-Don Alfonso, dove si dimostra un valido interprete del marito geloso, iracondo, ma anche subdolo, in grado di dissimulare con disinvoltura di fronte a Gennaro i sentimenti che per lui cova. Parole di elogio vanno anche al Maffio Orsini del mezzosoprano Varduhi Abrahamyan, che vanta voce solida, dalla sorprendente capacità e facilità nel dominare il registro acuto. Sarà interessante ascoltarla in nel ruolo di Carmen, nel dicembre del 2019 al Teatro Regio di Torino, dove avrà modo di esibire soprattutto quello contraltile. Il cast è completato da Manuel Pierattelli (Jeppo Liverotto), Alex Martini (Don Apostolo Gazella), Roberto Maietta (Ascanio Petrucci), Daniele Lettieri (Oloferno Vitellozzo), Rocco

Cavalluzzi (Gubetta), Edoardo Milletti (Rustighello), Federico Benetti (Astolfo), questi ultimi efficaci interpreti del siparietto semicomico che alleggerisce l'atmosfera del primo atto, Claudio Corradi (Un usciere), Alessandro Yague (Un coppiere) e Francesca Verga (La principessa Negroni).

Ci si sente quasi in dovere di ringraziare per una regia tanto lambiccata e inutilmente pretestuosa come quella di Andrea Bernard, che ha l'unico vantaggio di essere così poco interessante da far preferire una fruizione dello spettacolo a occhi chiusi, sì da concentrarsi meglio sulle voci. Le indicazioni librettistiche sono quasi del tutto rigettate, conservando solo quelle ineludibili per lo svolgimento della trama. Anche l'ambientazione è straniante, avulsa da qualsivoglia contestualizzazione storica o geografica. Le scene di Alberto Beltrame prevedono un tenebroso palcoscenico quasi totalmente spoglio, con un pannello rettangolare mobile a fare ora da palazzo dei Borgia con inciso il cognome, dal quale Gennaro staccherà la lettera B, ora da tetto per una zona protetta dalla violenza dell'azione, sotto il quale, in un primo momento Lucrezia, durante il Preludio, culla e allatta un bambino (pupazzo), prendendolo da una culla bianca – il bambino le verrà poi sottratto in un momento di distrazione, sempre durante il Preludio, da un figurante in veste di Papa, evidentemente Alessandro VI, padre di Lucrezia (siglando così l'antefatto e spiegando il perché della vita senza madre di Gennaro), e la culla verrà rotta in tanti pezzi, simbolo della maternità spezzata – e dove, in un secondo momento, durante Anch'io provai le tenere di Gennaro, una controfigura di Lucrezia culla un bambino invisibile. Esclusi due tavoli per il ricevimento dalla principessa Negroni e pochi altri oggetti di scena (le immancabili coppe per l'avvelenamento), il palcoscenico è desolatamente vuoto. Il tema dell'inconscio la fa da padrone, del doppio come manifestazione dei pensieri inconfessati, la madre in candida veste per Lucrezia, un uomo in gonnellino da Tarzan, bruciato e annerito come un carbonaio per Gennaro, che compare nei momenti topici dell'opera, cammina lentamente un passo avanti all'altro (movimenti scenici a cura di Marta Negrini) e torna dietro le quinte. La trovata non è malvagia, ma la realizzazione lascia a desiderare, e, detto francamente, in un contesto di innovazione, bella o brutta che sia, sa di già visto. Ancora più incomprensibile è il motivo delle tre scritte Inferno-Purgatorio-Paradiso che appaiono nei sopratitoli verso metà circa del Prologo, del primo e del secondo atto. Neanche i costumi, a firma di Elena Beccaro, paiono obbedire a una qualche coerenza, con tutti Don Alfonso in trench di pelle nero e Lucrezia dapprima in jeans neri e camicia bianca, poi in stivali neri e impermeabile giallo. D'accordo che in natura giallo e nero sono i colori degli insetti velenosi, e qui di veleno si fa uso; però…

Christian Speranza

2/12/2019

Le foto del servizio sono di Gianfranco Rota.