RECENSIONI
-

_ HOMEPAGE_ | _CHI_SIAMO_ | _LIRICA_ | _PROSA_ | _RECENSIONI_| CONCERTI | BALLETTI_|_LINKS_| CONTATTI

direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

A volte ritornano

Dopo aver ceduto a James Conlon la bacchetta di direttore principale dell'Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai (OSN) nel 2016, Juraj Valchua ha come spiccato il volo nel cielo della direzione, ma non ha dimenticato l'orchestra con cui, se proprio non si è fatto le ossa, per lo meno se le è consolidate. Eccolo quindi tornare per il quarto concerto della stagione, giovedì 7 novembre 2019 per un programma all'insegna della modernità.

Se per i primi tre concerti il fil rouge è stato l'accostamento di un autore tedesco a uno russo, quello nuovo sembra essere imperniato sulla figura di Prokof'ev. Dalla Terza Sinfonia Op.44, ascoltata la scorsa volta, ovvero la rielaborazione delle musiche dell'Angelo di fuoco, si passa alla suite dall'Amore delle tre melarance Op.33bis. Ancora una volta musica tratta da un'opera: solo che, a differenza dell'Angelo di fuoco, che non debuttò in teatro vivente l'autore, in questo caso, L'amour de trois oranges Op.33, su libretto del compositore stesso, da una commedia di Carlo Gozzi, venne tenuta a battesimo a Chicago il 30/12/1921, tre anni dopo essere stata commissionata, durante una fortunata tournée negli Stati Uniti. Dall'opera, Prokof'ev ricavò una suite orchestrale di sei brani, l'Op.33bis, appunto, per dare maggior circolazione alla sua musica.

Quasi lo stesso motivo è alla base delle tre suite che Igor Stravinskij ricavò dal suo Oiseau de feu, il primo balletto scritto per la compagnia di Djagilev, di fatto una sintesi degli esperimenti compositivi di un geniale ventottenne in rotta di collisione con le tradizioni. Quella del 1945, in particolare, a trentacinque anni dalla composizione del balletto, si distingue per un deciso alleggerimento dell'organico originale, per esigenze pratiche di esecuzione, e per l'introduzione di nuovi brani non inclusi in quelle del 1911 e del 1919.

A dispetto del prolungato rapporto con l'OSN, che voci di corridoio sussurrano essere stato non proprio idilliaco, Valchua sembra prendere le distanze dai brani (o dall'orchestra?) che dirige, e di conseguenza l'esito artistico complessivo, pur stabilizzandosi su uno standard di notevole qualità, dato da un'orchestra che risponde ai comandi in maniera eccellente, non si cattiva che una simpatia di stima. Ci si intenda: si tratta di opinioni personali dello scrivente, coi suoi gusti e le sue inclinazioni: ma, a fronte di un'esecuzione tecnicamente inappuntabile, cosa da rimarcare come elemento più convincente della serata, si assiste a un'interpretazione che fa in certi momenti dell'aplomb e della compostezza la sua cifra distintiva. Un'interpretazione a suo modo elegante, ma non particolarmente adatta a musica come questa, che, scritta nell'epoca di uno sperimentalismo già piuttosto audace, e, nel caso di Stravinskij, concepita per essere coreografata e danzata, avrebbe brillato se le fosse stata infusa la scintilla di un vitalismo più marcato. Perfino nella Danza infernale, il brano più d'effetto, che nella suite compare dopo i colori sfumati e i pianissimi della Pantomima III e del Rondò (Khorovod), e che con la sua violenza espressiva gioca su un effetto sorpresa garantito (il classico momento in cui l'ascoltatore appisolato si risveglia di colpo e il neofita sobbalza sulla poltrona), non si ha la sensazione di qualcosa di veramente e convintamente “selvaggio” (e non per incapacità di Stravinskij!). Non si parli poi di Prokof'ev, che spesso ingaggia in orchestra vere e proprie maratone musicali, lui, esponente di quella “musica della macchina” che tanto la avvicina al futurismo letterario. Accanto a brusche accelerate (nella Marcia, nello Scherzo e nella Fuga finale), che forse sarebbero piaciute all'autore ma che non permettono una fruizione ottimale della materia musicale, si ha come un ristagno in altre parti (Il principe e la principessa): un tantino più e un tantino meno di verve, là dove serve e a fasi alterne, non sarebbe guastata.

Ora, se lo sperimentalismo strumentale costituisce la cifra stilistica di Prokof'ev e Stravinskij, si può a buon diritto affiancare Luca Francesconi con il suo Macchine in echo, per due pianoforti e orchestra, presentato in apertura di concerto in prima esecuzione presso la Rai.

Compositore milanese classe 1956, Francesconi discende artisticamente da Azio Corghi, Luciano Berio e Karlheinz Stockhausen, coi quali si forma negli anni Settanta e Ottanta. In questa partitura in unico movimento di una ventina di minuti, che vedrà impegnati Valcuha, l'OSN e i pianisti Emanuele Arciuli e Andrea Rebaudengo in altre repliche alla Scala di Milano e al Comunale di Bologna, insieme al resto del concerto, Francesconi esplora le possibilità timbriche dei pianoforti solisti visti come “macchine”, non tanto come strumenti, i quali, essendo sfruttati soprattutto per il loro lato percussivo (sovente nelle zone acute e gravi della tastiera), trovano una risonanza in una foltissima schiera di percussioni, comprese ben quattro “macchine del tuono” (lastre di metallo verticali, già impiegate da Strauss nella sua Alpensinfonie). I due, come rimpallandosi un segnale, aprono il brano senza sostegno di altri strumenti e man mano “contagiano” l'orchestra come, appunto, “in eco” (il vezzo di scriverlo con la H alla latina pare ingiustificato), come onde che si propagano sulla superficie di un lago. Questo almeno sulla carta: ché l'effetto acustico (“sonoro” sarebbe altra cosa) è quello di una cacofonia ben organizzata, sostenibile per cinque, dieci minuti, non di più. Si ribadisce che il livello tecnico dell'orchestra è notevole, soprattutto per la precisione delle entrate delle percussioni, per non parlare di Arciuli e Rebaudengo, interpreti sicuri e precisi, con un tocco appropriatamente metallico e duro. Valcuha, dal canto suo, sfoggia padronanza da vendere in una partitura di evidente complessità. Ma non sempre basta a emozionare. Lo sperimentalismo è sicuramente positivo quando costituisce una spinta per progredire in tutte le arti, visive come musicali; e senza opere poco o tanto di rottura saremmo ancora al gregoriano. Ma ormai, l'impiego di orchestre gigantesche, con percussioni che rientrano lato sensu nel significato del termine (il martello e campanacci nella Sesta di Mahler) hanno fatto il loro tempo. Persino l'impiego di strumenti distorti alla Cage o di nastri magnetici o dell'elettronica è già datato: Xenakis, Nono e gli stessi maestri di Francesconi (presente in sala e applaudito a fine serata). Ma, più che la geniale trovata di un compositore originale, la ciliegina sulla torta, un trapano che perfora una tavoletta di legno (sic), è sembrata, agli occhi e alle orecchie del retrivo e antiquato estensore, soltanto un'inutile provocazione.

Christian Speranza

19/11/2019

La foto del servizio è di PiuLuce.