RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

Gregory Kunde grande Chénier

al Teatro dell'Opera di Roma

Quarantadue anni sono trascorsi dall'ultima apparizione di Andrea Chénier sul palcoscenico del Costanzi, un periodo lunghissimo per un titolo un tempo di grande attrazione per il pubblico. L'interesse verso il lavoro più pregevole scaturito dalla penna di Umberto Giordano è andato progressivamente scemando, forse per la sempre più esigua disponibilità di interpreti dalla vocalità generosa, forse per l'affermarsi di un pregiudizio critico crescente nei confronti della stagione che viene aggettivata come verista. Eppure l'allestimento visto al Teatro dell'Opera di Roma ha reso pienamente giustizia a questo titolo. Marco Bellocchio approccia il melodramma con estrema umiltà, senza voler mai sovrapporre la propria visione al dettato librettistico, seguendo perfettamente le esigenze della musica. Una visione registica che non brilla per originalità, ma risulta estremamente godibile. Bellocchio non rinuncia comunque a introdurre le tematiche care alla propria ricerca filmica, sfrondando nel contempo la drammaturgia dagli elementi futili. Gli sfarzi settecenteschi del primo atto e le ambientazioni urbane del secondo si stemperano nella lineare semplicità del terzo e del quarto. Marmi candidi e architetture razionaliste rammentano più le atmosfere del ventennio fascista che non quelle della rivoluzione francese. Bellocchio traccia un ideale ponte fra passato e presente, a evidenziare la perenne minaccia del totalitarismo. Nell'ultima scena sullo sfondo appaiono fotografie sbiadite, volti di uomini i quali, probabilmente, hanno combattuto per la libertà, e per i loro ideali sono stati imprigionati e uccisi. Con un gesto molto discreto, il regista è riuscito a imporre la propria cifra a uno spettacolo che era partito nella maniera più tradizionale, evitando così il rischio dell'impersonale routine. Il tutto impreziosito dai pregevoli costumi di Daria Calvelli e dalle scene create da Gianni Carluccio.

L'esecuzione musicale libera la partitura di Giordano dalle pastoie del verismo più datato, senza per questo abdicare all'emozione. La direzione di Roberto Abbado smorza gli effetti retorici per evidenziare le trame intessute da un musicista niente affatto sprovveduto. La pennellata grossolana lascia spazio alle trasparenze e ai colori pastello, a tutto vantaggio del canto. Nel cast emerge la personalità forte di Gregory Kunde, uno Chénier che non sacrifica mai le ragioni della poesia alla retorica. Non cessa di stupire la vicenda artistica di questo tenore, nato rossiniano e giunto a lidi ben più drammatici. Il trascorrere del tempo ne ha brunito il timbro e aumentato lo spessore, senza incrinare le doti di una voce ancora fresca e rigogliosa. La natura idealista di Chénier trova in Kunde un interprete ideale, dal fraseggio vario e ricco di chiaroscuri, adeguato anche nei momenti più propriamente declamatori, vigoroso e squillante nell'acuto. Qualche disomogeneità nel passaggio dal registro grave e quello centrale non inficia una prova maiuscola. Al confronto Maria Josè Siri (Maddalena) appare meno varia e rifinita. La voce è comunque generosa, anche se alcuni estremi acuti appaiono un poco tirati. Roberto Frontali è un Gérard colmo di amarezza nella sua aria di esordio, capace di delineare con sufficiente credibilità i mutamenti psicologici del personaggio. Il suo appoccio al ruolo è totalmente verista, la recitazione scarna ma efficace. Nei suoi momenti più rabbiosi sembra prefigurare la malvagità a senso unico di Scarpia, salvo poi recuperare un sentimento di pietà che è precluso al personaggio pucciniano. Dal punto di vista prettamente vocale la solidità complessiva mostra a volte qualche segno di usura. Elena Zilio si ritaglia un momento di gloria nella scena della vecchia Madelon, pronta a sacrificare il giovanissimo nipote alla causa rivoluzionaria. L'interpretazione particolarmente sentita e la consumata maestria dell'attrice fanno dimenticare le crepe inferte all'organizzazione vocale da una lunghissima carriera. Ottime le parti di contorno, a cominciare dalla Bersi di Natascha Petrinsky, fino alla Contessa di Anna Malavasi e al Roucher di Duccio Dal Monte. Una menzione meritano infine anche il Mathieu di Gevorg Hakobyan e l'“incredibile” di Luca Casalin. Alla bella prova orchestrale si affianca quella del Coro, ben preparato da Roberto Gabbiani, mai pesante nei suoi interventi. Ripulito dalle incrostazioni del tempo, lo Chénier risalta dunque in tutta la sua forza emotiva. Il pubblico dimostra di apprezzare.

Riccardo Cenci

3/5/3017

La foto del servizio è di Yasuko Kageyama.