RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

Felix per Felix

Ha appena sedici anni, ma è già considerata una delle migliori. Non è l'ennesima ragazza prodigio, ma un'orchestra: la Filarmonica del Teatro Regio di Torino (TRT). Fondata nel 2003 dai professori d'orchestra del Teatro medesimo col nome di Filarmonica '900, per sottolineare l'ambito d'elezione, ha poi cambiato nome in quello attuale, estendendo il repertorio ad altre epoche e non disdegnando incursioni nel jazz e nella musica da film.

Dal 2004 la Filarmonica TRT anima la rassegna concertistica del Teatro torinese. Per il primo appuntamento della stagione, lunedì 11/11/2019, sceglie un programma tutto dedicato alla Germania. Si parte con l'ouverture Leonore III Op.72b di Ludwig van Beethoven; si entra nel vivo con il Concerto per violoncello e orchestra in la minore Op.129 di Robert Schumann; e si conclude con la Sinfonia n°3 in la minore “Scozzese” di Felix Mendelssohn-Bartholdy.

Roberto Baiocco, uno dei componenti della Filarmonica, introduce con due parole il concerto. Parla di “ingredienti”, come per una ricetta culinaria. E l'incontro fra repertorio tedesco e musicisti italiani si concretizza nella scelta di un direttore tedesco, il giovane Felix Mildenberger (che Baiocco invita a parlare, rigorosamente in tedesco, per commentare i brani), e di un solista italiano, il violoncellista campobassano Amedeo Cicchese, classe 1988. Un connubio ben riuscito per un concerto che ha tutte le carte in regola per durare a lungo nei ricordi.

Ecco allora la Leonore III. Il brano, che fece da introduzione alla versione del 1806 del Fidelio, riassume i temi fondamentali dell'opera, la lotta di Florestano e Leonora contro il malvagio Pizarro, classico duellare di temi tipico del Beethoven eroico, fino all'arrivo liberatorio del Governatore, simboleggiato dalla fanfara della tromba fuori scena. Ma li riassume talmente bene, da rendere superfluo, secondo Donald F. Tovey, addirittura tutto il primo atto! Non a caso l'autore, quando riprese l'opera nel 1814, decise di espungerla e di sostituirla con la più concisa ouverture che apre attualmente il Fidelio: meno pretenziosa, di sicuro, ma più funzionale, più adatta allo scopo di introdurre, di invitare all'ascolto dell'opera, ma sapendosi mettere da parte nel momento giusto.

Mildenberger, Direttore Principale, Direttore Artistico e co-fondatore della Symphonieorchester Crescendo di Friburgo, opta per un tempo né troppo affrettato, né troppo lento, cosa che conferisce a questo magnifico torso sinfonico il giusto senso di maestosità e grandiosità, da narrazione epica. Si assiste a un'esecuzione energica, vitale, esuberante, che galvanizza fin da subito il pubblico ma che non strafa, non esagera, lasciando che le note parlino da sole, senza superflui ricalchi.

Distantissima dallo sfarzo della Leonora III l'atmosfera del Concerto schumanniano, tutto intriso di spleen, tutto sfumato a mezze tinte, che rifugge dalla spettacolarità di tante pagine per arco solista e si ripiega in un intimismo malinconico, specchio dello Schumann del 1850: uno Schumann già in declino, che nel 1854 tenterà il suicidio e verrà ricoverato nel manicomio di Endenich, dove morirà (si leggano a tal proposito Memoriali sul caso Schumann di Filippo Tuena, Il Saggiatore 2015, e Lettere da Endenich, a cura di Filippo Tuena, Italo Svevo edizioni, 2017). La pagina, dedicata all'«aquilotto» Brahms, contiene elementi di novità, a partire dalla sua articolazione in tre movimenti senza pause, un unico divenire sonoro paragonabile a un flusso di coscienza letterario, giudicato dalla critica del tempo troppo audace, poco appariscente per il solista e di conseguenza ineseguibile.

Cicchese dispone di una cantabilità calda ed espressiva, un suono dolce, levigato, adatto a questo brano, che esegue con grazia e con molta, moltissima eleganza. L'intesa con l'orchestra è ottima, il rapporto tra i due ben bilanciato, grazie anche alla scelta di limitarla a dodici violini primi (cioè a quattro contrabbassi: volume sonoro contenuto e buon risalto del solista). Ne risulta un'esecuzione di livello, sentita e partecipe, conclusa da un fuori programma altrettanto coinvolgente, El cant des ocelles nella versione per violoncello solista e accompagnamento di violoncelli approntata da Pablo “Pau” Casals (cui si deve, tra le altre cose, la riscoperta in tempi moderni dell'Op.129 di Schumann e delle Suites di Bach).

Dall'umbratile concerto schumanniano si passa alle brume suggestive della Scozia un po' idealizzata di Mendelssohn e della sua Terza Sinfonia. Terza in catalogo, ma che tuttavia è l'ultima ad essere terminata in ordine cronologico. L'idea arriva nel 1829 durante un viaggio in Scozia, che ispirerà anche la famosa Ouverture Le Ebridi (o La grotta di Fingal) Op.26. Al suo rientro in Germania, però si dedica ad altri progetti, e nel 1831 la sinfonia viene accantonata. Torna a lavorarci esattamente dieci anni dopo, nel 1841, finendo di comporla nel 1842, quando ormai l'Italiana” e “La Riforma” erano già state scritte. Ma, poiché viene pubblicata per terza, in catalogo figura come Sinfonia n°3 Op.56.

Qui Mildenberger ha modo e tempo di dimostrare le sue doti di direttore. Il primo movimento, trattato alla romantica, con una certa elasticità di vedute, si fa incalzante soprattutto nello sviluppo, così come nella coda, dove si fa turbinoso e occhieggia al Temporale della “Pastorale” beethoveniana. Lo Scherzo, Vivace non troppo, è spumeggiante e carico di humour, con quei fiati che appaiono e scompaiono come da dietro gli alberi in un bosco, giocando con l'ascoltatore come folletti ridanciani. Il pensiero corre qui al Puk e al lavoro che Mendelssohn stesso dedica al Sogno shakespeariano. Si passa poi a un Adagio cantabile che sotto la bacchetta di Mildenberger diventa quasi un Andante, molto scorrevole e un po' più veloce rispetto ad altre letture di riferimento, ma che permette alle suadenti melodie mendelssohniane di evidenziare soprattutto il loro aspetto cantabile. In confronto, l'Allegro vivacissimo che segue sembra ancor più indiavolato di quel che è, sebbene sempre nei limiti di un'espressività mai esagitata qual è quella di Mendelssohn, forse il più “classico” dei Romantici: più un fuoco che brucia e consuma, una fiamma che scalda e trasmette vigoria. Felice e briosa la conclusione, subito salutata da applausi convinti e prolungati.

Christian Speranza

30/11/2019