RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

Senza rimpianti

Fedora di Umberto Giordano, secondo titolo in cartellone della stagione lirica 2019 del Bellini di Catania, opera assente da moltissimo tempo nella sala del Sada, sembrava, almeno nei giorni che hanno preceduto la prima del 17 marzo, nata proprio sotto una cattiva stella: le precarie condizioni economiche nelle quali versa il nostro Bellini, in buona compagnia con gran parte degli enti lirici italiani, avevano riaperto l'annosa questione dei precari in attesa di stabilizzazione, con conseguente occupazione del teatro; il maestro Daniel Oren, che avrebbe dovuto dirigere almeno la prima, è stato costretto a dare forfait all'ultimo momento, per sopraggiunti problemi di salute, cedendo dunque il podio anche per il turno A a Gennaro Cappabianca. Come si vede, problemi non di piccolo conto, e soprattutto forieri di possibili nefaste conseguenze soprattutto per la possibile delusione del pubblico, privato della possibilità di ascoltare, almeno per la prima, la nostra orchestra diretta da una delle più prestigiose bacchette del mondo. Inoltre, una protesta assolutamente legittima quale quella non solo dei precari, ma di tutto il personale del Bellini, costretto a combattere diuturnamente con tagli sempre più gravosi, si sarebbe potuta tradurre nella peggiore delle ipotesi in uno slittamento della prima, o in contestazioni collaterali poco consone al clima di festosa attesa che circonda sempre un'opera abbastanza celebre ma, almeno in Sicilia, di rara esecuzione. Eppure tutto è andato a posto senza intoppi, dimostrando da un lato la maturità del pubblico catanese, che si è rivelato davvero poco incline a lasciarsi impressionare dai divi del melodramma, dall'altro la civiltà di una protesta sacrosanta che è riuscita, con un quasi miracolo registico, a incunearsi perfettamente nella rappresentazione dell'opera.

Ma lasciamo per il momento da parte l'aspetto economico e tentiamo di concentrarci sul forfait di Daniel Oren: pur augurando una prontissima guarigione al musicista israeliano, del resto presente pur se in assenza grazie alla nutrita rappresentanza dell'Opera di Israele, dato che i tre protagonisti, soprano, tenore e baritono, sono cantanti stabilmente in forza in tale teatro, non si può davvero dire che la sua mancanza sia stata sentita, né sul fronte personale, né soprattutto su quello musicale. Chi scrive ha avuto modo di ascoltare dal vivo la direzione di Oren, e dunque poteva fare dei paragoni, ma il risultato non lo ha affatto deluso. Né il pubblico, i cui commenti abbiamo avuto modo di ascoltare durante i due intervalli, sembrava particolarmente scontento: qualcuno si è limitato a dire di passaggio che era previsto un altro direttore, ma nulla di più…

A questo punto, sorge spontanea una riflessione: quanto pesa il grandissimo nome sul successo di una rappresentazione? Il pubblico dell'opera viene davvero a teatro solo per ascoltare un divo (più o meno come ai concerti di musica leggera) o soprattutto per ascoltare della musica ben eseguita, un canto degno di tale nome, e per vedere una regia di buon livello? Insomma, va a teatro per una sola persona, per celebre che sia, o per uno spettacolo nel suo complesso, e per uno spettacolo come l'opera, che necessita di una sinergia quasi assoluta tra musica, canto e parte visiva per funzionare? L'esito di Fedora non lascia dubbi: ciò che determina il successo di un'opera non è il divo, ma la coesione e la coerenza tra i singoli elementi che la compongono. Non è la cattedrale nel deserto che costituisce una località turistica, in grado di attirare gente, ma la presenza di servizi, di strutture, di tutto quel complesso di elementi che possono rendere un soggiorno piacevole e interessante. Fuor di metafora, se per assurdo ci fosse stato Oren, anche per tutte le repliche, e di converso cantanti inadeguati, un'orchestra non professionalmente agguerrita e una regia più o meno cervellotica, il pubblico non avrebbe mostrato il gradimento e la soddisfazione di cui ha dato prova. È questa un'occasione per ripensare gli allestimenti, specialmente in tempi di crisi come i nostri: forse sarebbe il caso di ritornare alla politica delle dirigenze del passato, quelle che hanno reso celebri i grandi teatri d'opera, e ricominciare con adeguati programmi di audizioni, di valorizzazione dei nuovi talenti, puntando più al prodotto nel suo complesso che al singolo prestigioso interprete. Costerebbe meno, immetterebbe nuova linfa, e contribuirebbe a salvare il melodramma italiano, le orchestre stabili e i cori, che costituiscono un patrimonio culturale che assolutamente non deve essere disperso.

Esaurita questa doverosa premessa, passiamo senz'altro a render conto della rappresentazione, partendo dalla regia di Salvo Piro, coadiuvata dalle belle scene Liberty e dai costumi di Alfredo Troisi. L'allestimento era quello del Teatro “Umberto Giordano” di Foggia, che è stato riadattato per un palcoscenico naturalmente molto più esteso: una scenografia abbastanza tradizionale, ma che ha avuto il vantaggio di rendere molto fluida l'azione, permettendo cambi di scena pressoché a vista e creando un'illusione di profondità e di prospettiva a tratti davvero molto suggestiva. Il regista ha dimostrato di saper far muovere sia le masse che i singoli personaggi in maniera assolutamente non stereotipa, creando nel secondo atto, pur nella limitata attrezzeria, quell'impressione di sontuosità e di spensierata allegria tipiche di una festa di fine Ottocento nella dimora di una principessa. Anche il terzo atto, con la sua prevalenza di bianco, sia in scena che nei costumi, ben rendeva l'idea di una lussuosa dimora di villeggiatura in Svizzera, e strideva quanto si doveva con l'atmosfera cupa e luttuosa che veniva a crearsi all'improvviso pochi istanti prima della morte di Fedora, usata come ponte drammatico per la protesta del personale del teatro. Mentre la protagonista, invece di accasciarsi al suolo o tra le braccia dell'amato Loris, s'incamminava come Norma verso il fondo del palcoscenico, l'alzarsi del fondale svelava l'interno, un cartellone scendeva lentamente, e tutto il personale del teatro, dal Sovrintendente sino al direttore di sala, entrava in silenzio, disponendosi ad ascoltare un breve annuncio, recitato da Manuela Ventura, che esortava a non lasciar morire il teatro d'opera, e il Bellini in particolare, che Piro, in un originale cortocircuito ammiccante al teatro nel teatro, aveva identificato con Fedora, rendendo in tal modo l'accorato ma composto messaggio ancor più pregnante.

Come già accennato all'inizio dell'articolo, la direzione e la concertazione di Gennaro Cappabianca si sono rivelate impeccabili, in un sovrano equilibrio tra buca e palcoscenico: l'orchestra, in splendida forma, ha sfoderato un colore sontuoso e una coesione che hanno impresso violenta drammaticità alla vicenda, sempre all'interno di una misura sonora che, se ha permesso ai cantanti di non essere mai sovrastati, ha di converso dato il meglio di sé nella potenza delle parti puramente orchestrali, accompagnandosi a una omogeneità e coerenza di tempi nella dinamica complessiva dell'opera quanto mai rara. Attenti e precisi gli interventi del coro preparato con competenza e professionalità da Luigi Petrozziello.

Anastasia Bartoli, nel ruolo della spensierata e civettuola contessa Olga Sukarev, ha dato prova di grande disinvoltura scenica, con una vivacità prorompente che ricordava molto la Valenciennes della Vedova Allegra: dotata di voce potente e luminosa, pur se non sempre perfettamente coperta negli acuti, è stata senz'altro una nota gaia nell'intrigata vicenda, evidenziando con la sua spensieratezza, soprattutto nel secondo atto, il contrasto drammatico tra l'allegria generale e l'intento vendicativo di Fedora. Di buon livello anche la prestazione del baritono Ionut Pascu, De Siriex: cantante dal bel timbro, dotato di notevoli capacità tecniche e di buone doti attoriali, si è visto tributare calorosi applausi alla fine dell'arioso “La donna russa è femmina due volte”, interpretata con scanzonata ma impeccabile eleganza. Sergey Polyakov, Loris Ipanov, si è rivelato il classico tenore all'italiana, generoso nell'emissione, dotato di una voce potente e stentorea: dopo un'iniziale incertezza nell'esordio di “Amor ti vieta”, è andato via via crescendo, mostrando una notevole musicalità e dolcezza di timbro, specie nella zona media, per dare il meglio della sua focosa irruenza e passionalità nel terzo atto.

Il soprano lettone Ira Bertman, Fedora, pur nella giovinezza che condivideva con tutti i protagonisti, ha mostrato di possedere una tecnica sicura e una potenza vocale, specie nella zona acuta, di tutto rispetto che, unita a una dizione chiara e nitida e a egregi filati, le ha permesso, pur con qualche sbiancatura iniziale in zona media e grave, di affrontare con discreta padronanza il ruolo della passionale principessa russa, riuscendo a evidenziare anche vocalmente tutte le contraddizioni del personaggio, dall'ira cupa e gelida, all'amore, sino alla dolorosa scoperta di essere stata causa della morte del fratello e della madre dell'amato. La cantante infatti ha migliorato parecchio le sue prestazioni a partire dal secondo atto, giungendo nel terzo a imprimere tutto il giusto pathos al suo ruolo, in una sinergia con Polyakov che ha reso il finale tragico senz'altro il momento più commovente dell'opera.

Giuliana Cutore

18/3/2019

Le foto del servizio sono di Giacomo Orlando.