RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 

 

Julius Caesar all'Opera di Roma

Battistelli e la crisi del potere

È spinta da un continuo dinamismo la partitura che Giorgio Battistelli ha confezionato per Julius Caesar, come fosse scossa dall'interno da insopprimibili e continue folate di vento, incrinata da crepe sottili, da forze misteriose che ne scompaginano le traiettorie. Sembra incredibile, ma era dal 1901 che il Teatro dell'Opera di Roma non inaugurava la stagione con una novità assoluta. Allora erano Le maschere di Mascagni mentre oggi è il Julius Caesar, appositamente commissionato dall'istituzione lirica della Capitale. Il critico potrebbe essere colto da improvvisa vertigine, finalmente posto di fronte alle proprie responsabilità nei confronti del presente, eludendo per una volta quella costrizione passatista che sembra ormai la regola. E poco importa che un primo giudizio possa essere passibile di revisione, che un unico ascolto non basti per comprendere la portata di un'opera d'arte. Julius Caesar è infatti un lavoro complesso a iniziare dal tema: il potere. Una riflessione che caratterizza il teatro dei grandi, da Verdi a Wagner, ed al quale Battistelli non ha voluto sottrarsi. Ian Burton ha rielaborato l'originale modernizzandolo, con alcune licenze. La lingua scelta è l'inglese, il che rispetta il dettato shakespeariano e nel contempo addita il collegamento con uno dei più grandi operisti del Novecento, se non il più grande: Benjamin Britten. Dicevamo dell'orchestra, protagonista assoluta di questo ambizioso lavoro. Il colore è fondamentalmente cupo, tenebroso nelle sue variegate sfumature timbriche.

Il primo atto è una cavalcata verso l'uccisione di Cesare, un crescendo di tensione che culmina nell'omicidio, dopo il quale la storia non sarà più la stessa. Notevole la scena quarta, nella quale si registra l'unica presenza femminile. Calpurnia, moglie di Cesare, impersonata da una efficace Ruxandra Donose, cerca di persuadere il testardo consorte a non uscire di casa a causa di un cattivo presentimento. Anche un servo, un bravo Alessio Verna, conferma gli infausti presagi. Eppure Cesare, nonostante tutto, decide di andare incontro al proprio destino. Clive Bayley delinea con grande efficacia l'autorevolezza del sovrano, ma anche la sua fragilità. Dietro l'apparente sicurezza si celano tutti i dubbi dell'uomo. Il secondo atto appare più variegato nelle movenze orchestrali. Il discorso di Antonio, incarnato da un efficace Dominic Sedgwick, vero fulcro del dramma, si svolge in maniera forse un poco sbrigativa. È in questo luogo che, con furbizia attoriale, il futuro triumviro ribalta la sorte dei congiurati. La sua arringa appare magistrale nel muovere accuse senza mostrare l'intenzione di farlo. Quando scopre il cadavere di fronte al popolo, è davvero come se tutti si rendessero conto del delitto per la prima volta. La rivelazione del testamento di Cesare, con il quale questi dona ad ogni cittadino settantacinque dracme, è il colpo finale. D'ora innanzi Antonio ha vinto. Il popolo è definitivamente con lui.

Se la partitura è disseminata di echi britteniani, un momento dove questi ci sono apparsi più presenti è nella scena seconda, e in particolare nel lamento di Lucio, il servo di Bruto. Qui vengono evocate le atmosfere oniriche del Midsummer night's dream, costantemente in bilico fra realtà e apparenza. Lucio canta del sonno, che è apparentato con la morte. Ian Burton si avvale in questa occasione di un lamento elisabettiano, che non era compreso nell'originale stesura di Shakespeare. Se in Britten il sonno è un mistero foriero di pace che richiama l'alba dell'esistenza, qui è un messaggero della fine. Subito dopo appare infatti lo spettro di Cesare. Il destino dei congiurati è ormai segnato. In Shakespeare il fantasma compare una sola volta. Qui torna invece nel finale assistendo nel suicidio sia Bruto che Cassio. Forse aveva ragione il Bardo di Stratford-upon-Avon nella sua scelta drammaturgica. L'apparizione dello spettro è tanto più efficace quanto più effimera e fugace. È materializzazione della coscienza tormentata. Prolungandone la presenza si rischia di sciupare l'effetto. Operando tale scelta, Burton intende evidenziare l'eterno ripetersi della storia. L'uomo, preda di un meccanismo ineludibile, non può far altro che reiterare i medesimi errori. In questa visione non vi è possibilità di riscatto alcuno.

Comunque sia, lo spettacolo funziona perfettamente. Robert Carsen non sovraccarica l'azione ma punta all'essenziale. Tutto assume un'evidenza di grande intensità, in grado di catturare l'attenzione dello spettatore dall'inizio alla fine senza cedimenti. L'ambientazione contemporanea non disturba affatto, ma appare in linea con l'eterna attualità del teatro shakespeariano. Daniele Gatti tiene saldamente in pugno l'orchestra, governando una scrittura complessa e ricchissima di dettagli con apparente semplicità. Qualche sporadico squilibrio fra la buca e il palcoscenico non inficia un'esecuzione lodevole. Buona anche la prova del Coro. Riguardo la compagnia di canto, quasi interamente impegnata in un declamato arduo da sostenere nel magma orchestrale, menzioniamo ancora le prove volenterose di Elliot Madore (Brutus), Julian Hubbard (Cassius) e Scott Wilde (Decius). Merito del Teatro dell'Opera di Roma aver riportato l'attenzione su una contemporaneità troppo spesso obliata.

Riccardo Cenci

30/11/2021

La foto del servizio è di Fabrizio Sansoni - Teatro dell'Opera di Roma.