RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

9/4/2016

 

 


 

La Traviata a Odessa

fra tradizione e modernità

 

Eludendo le consuete linee programmatiche legate al repertorio locale, il teatro dell'opera di Odessa si è cimentato nell'allestimento di uno dei titoli più celebri del repertorio verdiano: Traviata. Una scelta dettata dalla contemporanea presenza di critici ed esperti del settore provenienti da numerosi paesi europei, fra i quali l'Italia, intervenuti a un convegno sul futuro dell'opera e sulle sue prospettive. Operazione ardua in quanto, se l'incontro è perfettamente riuscito nel suo obiettivo di avviare un confronto stimolante e costruttivo, l'allestimento teatrale è apparso meno efficace.

Lo spettacolo pensato dal regista Yevhen Lavrenchuk resta in bilico fra la più vetusta tradizione e una modernità solo desiderata, ma non raggiunta. All'inizio Violetta è sola su una sorta di catafalco nero agitato dal vento, mentre un grammofono suona le prime note del preludio. Una prefigurazione dell'aura mortifera che avvolge l'ultimo atto, tutto giocato sul registro simbolico, con i protagonisti immobili che appaiono e scompaiono da un ampio velario oscuro. Una cifra che non viene mantenuta nel resto della rappresentazione, dalla costruzione piuttosto disorganica. In apertura di sipario la massa viene abbandonata a sé stessa, incapace a rendere il turbinio della festa. L'idea del personaggio che riprende l'azione, anche se in questo caso usa un vecchio apparecchio fotografico, non è certo nuova. Il taglio cinematografico dell'allestimento si riduce ad alcune proiezioni invero piuttosto banali, come quando Alfredo lancia in aria manciate di petali a simboleggiare il proprio amore. Le ornamentazioni statuarie, allusive del mito, aumentano la confusione simbolica. Le luci di Nataliia Hara in alcuni casi puntano alla facile spettacolarizzazione, mentre in altri ottengono risultati scontati (come quando la scena sovraffollata viene oscurata mentre la sola Violetta resta visibile, persa nelle proprie dolenti riflessioni). L'intima commozione del dramma borghese, basato sui contrasti sociali, viene inevitabilmente sciupata.

Le cose non vanno molto meglio dal punto di vista musicale. L'orchestra in verità suona bene, ma la direzione di Viacheslav Chernukho-Volich si mantiene sui binari di una correttezza che elude il romantico tormento. Riguardo il cast, il migliore è il Germont di Roman Strakhov, nel complesso ben cantato. Volenterosa la Violetta di Anastasiia Holub, anche se le intenzioni non sempre si traducono in esiti soddisfacenti. Nel finale del primo atto mostra sovente suoni striduli, e la dizione è incomprensibile. Il senso di smarrimento latita, così come lo sbiadire graduale del personaggio, il piegarsi della coscienza di fronte alla logica implacabile del mondo esterno. Oleg Zlakoman canta Alfredo con un impeto degno di Manrico, ma gli mancano raffinatezza e romantico abbandono. Apprezzabile la Flora di Taisiia Shafranska, brava infine la Annina di Hanna Bondarenko. Forse l'equivoco principale è stato quello di considerare Traviata come un enfatico melodramma romantico, e non come un'intima conversazione screziata da un malinconico senso di perdita e di abbandono. Da questo punto di vista resta ancora molto da lavorare. Il pubblico presente, comunque, ha dimostrato di apprezzare.

Riccardo Cenci

14/11/2019