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Una Vedova allegra agli albori del rock

All'Opera di Roma Michieletto lascia la belle époque

e ambienta l'operetta di Lehár nell'epoca moderna

«Dio, come sarebbe bello se Lehár avesse fatto la musica del Cavaliere della rosa, invece di Richard Strauss!», avrebbe detto Hugo von Hofmannstahl secondo quanto riportato da Alma Mahler nella sua autobiografia. Un'affermazione in apparenza paradossale, espressa proprio dal più fidato librettista del compositore tedesco, nonché sommo interprete della Finis Austriae. Eppure, se ci si ragiona a fondo, emergono importanti elementi di riflessione. Valido sostegno «dell'alienazione godereccia del suddito austroungarico, ma anche preannunzio del suo crollo», per usare le parole di Ladislao Mittner, il walzer si rivela come un sogno futile e vacuo, preannunzio dell'inevitabile declino. Dunque il ballo non è esclusivamente esibizione coreutica, ma innerva la struttura stessa del racconto divenendo strumento di definizione psicologica, luogo di elezione per i destini dei protagonisti. Ecco allora che il parallelismo, invero un po' azzardato, fra Richard Strauss e Franz Lehár, appare meno peregrino. In Die lustige Witwe la satira dell'inetta diplomazia europea, abbagliata dal miraggio parigino, si intreccia alla stralunata vicenda di un immaginario staterello balcanico sull'orlo della bancarotta; presagi che, di lì a breve, troveranno drammatica conferma nel deflagrare del primo conflitto mondiale.

Damiano Michieletto è consapevole del carattere contemporaneamente comico e tragico dell'operetta. Nel primo atto ai fasti dell'ambasciata sostituisce le fredde geometrie di un istituto di credito sull'orlo della bancarotta, un riferimento attuale che ben si innesta nelle vicende del libretto. Il palazzo di Anna Glawari, sede del gran ballo, si trasforma in una balera degli anni Cinquanta molto meno sontuosa, mentre nell'ultimo atto la residenza parigina diviene un ben più modesto ufficio nel quale il conte Danilo, mutato in un mero impiegato, viene travolto dalla girandola dei propri sogni. Gli amanti degli arabeschi belle époque resteranno inevitabilmente delusi da questa declinazione più prosaica del capolavoro di Lehár, ma non si può negare che lo spettacolo di Michieletto sia indubbiamente ben costruito. Il labile confine fra realtà e apparenza assume valenze shakespeariane nella figura di Njegus, trasformato in una sorta di mago il quale muove i destini dei personaggi attraverso un ventaglio fatato che sparge lustrini. Molto curati i movimenti scenici, in un allestimento nel quale non viene mai meno la tensione narrativa. Se qualcosa manca è il gusto del divertimento esagerato, il languore struggente verso un qualcosa che si sente irrimediabilmente perduto, l'ultimo abbacinante sprazzo di un fuoco d'artificio che muore nella coltre oscura di un cielo plumbeo e altrimenti immoto.

Alterne le cose dal punto di vista musicale. Constantin Trinks dirige in maniera attenta ma anche piuttosto prevedibile, per cui a tratti si perde l'acceso contrasto fra l'energia vorticosa dei ballabili e le oasi di delicatezza quasi mozartiana di cui abbonda la partitura. Nadja Mchantaf è scenicamente spigliata, ma dal punto di vista vocale non riesce a incarnare pienamente il fascino ineffabile della protagonista, la sua sfuggente sensualità. Le sta al fianco il Conte Danilo di Paulo Szot, interpretativamente accattivante e vocalmente piuttosto robusto, se escludiamo qualche fissità in zona acuta. Riguardo l'altra coppia di amanti, Adriana Ferfecka è un'apprezzabile Valencienne, mentre il Camille di Peter Sonn è corretto, ma povero di incanto e di abbandono. Spassoso e ironico al punto giusto il barone Mirko Zeta di Anthony Michaels-Moore. Di rilevante presenza attoriale Karl-Heinz Macek nel ruolo mimico di Njegus. Tutte ben curate infine le parti secondarie.

Riccardo Cenci

26/4/2019

La foto del servizio è di Yasuko Kageyama.