EDITORIALE
12/11/2025
Ronzinante a rotelle

Il destino dei grandi classici della narrativa è quello di venir saccheggiati, e talvolta cannibalizzati, dalla musica, dal teatro, dal cinema. Quando però il classico non è soltanto tale, ma attraverso i secoli è stato recepito come il primo romanzo moderno, e i suoi protagonisti sono diventati due tra i più celebrati personaggi della letteratura di tutti i tempi, il discorso insieme si semplifica e si complica. La semplificazione deriva dal fatto che il pubblico è diventato talmente avvertito sui casi di Don Chisciotte e Sancho Panza – perché di loro stiamo parlando – che l'adattamento potrà semplificare drasticamente il testo di Cervantes (Don Chisciotte di Paisiello, 1769), circoscriverlo a un episodio in cui il “cavaliere dalla triste figura” e il suo scudiero sono figure di contorno (Le nozze di Camacho di Mendelssohn, 1827), ricondurlo a una chiave del tutto farsesca (il film con Franchi e Ingrassia, 1968) senza che ciò ne destabilizzi le percezioni. La complicazione, invece, nasce dal senso d'impotenza che può ingenerare un romanzo di tale titanismo: davanti a così sterminate sollecitazioni, Strauss rinuncerà alle parole e opterà per un poema sinfonico. Quando però, nel 1910, Massenet realizza il proprio Don Quichotte le cose stanno cambiando. Siamo agli albori di un Novecento incline più all'ermeneutica che alla fantasia romanzesca: proprio dalla Spagna, patria di Cervantes e del suo personaggio, stanno arrivando contributi fondamentali (Unamuno, Ortega y Gasset) che spostano l'attenzione dal “carattere” al “mito”, dal Don Chisciotte-personaggio a Don Chisciotte inteso come Idea. E Massenet, ormai pesantemente valetudinario e quasi prossimo alla fine, ne approfitta per realizzare un'opera-testamento permeata da una “poetica del commiato”, cara anche al Mahler di quegli stessi anni, dove l'hidalgo di Cervantes viene riletto in chiave di pulviscolare lirismo ed estenuata malinconia. Dunque, svuotato da qualsivoglia tentazione – o ambizione – narrativa. Sotto quest'aspetto lo spettacolo realizzato dal circuito OperaLombardia (ha debuttato a Pavia e approderà a Como e Cremona, ma la recensione dà conto d'una recita bresciana) è fedelissimo allo spirito massenetiano, nonostante l'apparentemente drastica riscrittura rispetto al libretto di Henri Cain. Ne siamo debitori a un regista geniale e appartato come Kristian Frédric, che, sottraendo qualsivoglia connotazione geografica alla Spagna francesizzata di Massenet, trasferisce una vicenda tutta all'aria aperta – piazza e patio, montagne e foreste – nell'ambiente claustrofobico d'una odierna RSA. Già stemperato dalla pièce di Jacques le Lorrain, fonte primaria per il librettista, il dinamismo del romanzo picaresco qui si converte nella staticità meditativa che circonfonde le case di riposo: cinque atti trasformati in altrettanti brandelli della memoria. L'utopistica visionarietà di Don Chisciotte diventa il cortocircuito d'una mente brillantissima, ma le cui capacità cognitive vanno sgretolandosi; e il sipario si alza sul protagonista, costretto su una sedia a rotelle che è il perfetto omologo dello spelacchiato destriero Ronzinante, mentre festeggia il proprio compleanno (sulla torta spicca il numero settanta, l'età in cui morì Massenet) tra gli applausi degli altri ricoverati e del personale sanitario.
In tale prospettiva Sancho non rappresenta quel buon senso spicciolo che si contrappone alla visionarietà del protagonista, ma è un infermiere che preferisce – per ammirazione, per amore – lasciarsi trasportare dal mondo fantastico del malato. Tra regressioni all'infanzia (appare Don Chisciotte bambino, alle prese con un libro di favole in luogo dei romanzi cavallereschi e scortato da un peluche via via più gigantesco), percezioni scompaginate (le dimensioni gulliveriane della mobilia, i sopratitoli che nell'ultimo atto appaiono a caratteri come disgregati per contrappuntare il dissolvimento cerebrale…) e impeccabili traslazioni visive (i mulini a vento diventano le pale dei ventilatori), Frédric impagina dunque uno spettacolo che abbina poesia e concettualità. Si avverte solo un surplus didascalico nella voce femminile fuori campo – la psicologa della RSA: forse Dulcinea – che descrive l'evolversi della malattia del protagonista, se non altro perché si tratta d'innesti un po' troppo lunghi. D'altronde, è anche un modo originale per replicare quel narratore esterno (lo storico che ha rinvenuto il manoscritto delle avventure donchisciottesche) utilizzato da Cervantes come filtro descrittivo.
Circa la coppia protagonista, Massenet prevede due voci non troppo dissimili quanto ad altezza (un basse-baryton per Don Chisciotte, un baritono tendente al grave per Sancho) ma ben differenziate sul piano coloristico. Una certa usura timbrica mostrata da Nicola Ulivieri, a fronte dell'omogenea compattezza di Giorgio Caoduro, ha portato – cosa in sé non ideale – ad un Cavaliere di tinta più chiara rispetto allo Scudiero: tuttavia, le singole prestazioni restano rimarchevoli. Con sensibilità interpretativa e aderenza alla visione del regista, ma anche al dettato massenetiano, Ulivieri plasma una figura malinconico-perdente più che epico-visionaria, propensa a morire di disillusione piuttosto che a morire di sogni; mentre Caoduro imprime un'intensità di sentire e una nobiltà d'animo che va forse a scapito dei momenti giocosi del personaggio (d'altronde i meno ispirati, in Massenet), ma apre orizzonti insospettati al carattere di Sancho. L'avvolgente sensualità contraltile di Dulcinea non ha trovato pari carnalità nel canto di Chiara Tirotta: d'altronde lo spettacolo la trasforma in una dottoressa idealizzata dal paziente, sicché la sua vocalità relativamente fredda ma inappuntabile calza a pennello. Parimenti, i due spasimanti en travesti qui sono due infermiere (Marta Leung e Erica Zulikha Benato, simpatiche e corrette); mentre agli altri due corteggiatori (Raffaele Feo e Roberto Covatta) restano da disbrigare le poche faccende tenorili di quest'opera dove per le voci acute quasi non c'è spazio. Tutti ben sostenuti dalla bacchetta di Jacopo Brusa, che sulla falsariga di Prêtre anticipa il preludio dell'ultimo atto all'inizio dell'opera, salvo poi riproporlo nella giusta collocazione, ma senza replicare le rarefazioni estenuate e i “rubati” tecnicistici dell'illustre direttore francese. Al contrario, Brusa – ben corrisposto dall'orchestra I Pomeriggi Musicali – cerca sonorità decise, quasi un sinfonismo narrativo in luogo dell'intimismo “cameristico” che suggerirebbe di primo acchito la partitura. E in ciò non pecca di scarsa idiomaticità: semmai è un modo per rammentarci il wagnerismo sui generis di Massenet. Che, non dimentichiamolo, approdò al Werther dopo aver visitato Wetzlar (la città in cui si svolge il romanzo goethiano) di rientro da un pellegrinaggio a Bayreuth.
Paolo Patrizi
La foto del servizio è di Giorgio Serinelli.
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