RECENSIONI
-

_ HOMEPAGE_ | _CHI_SIAMO_ | _LIRICA_ | _PROSA_ | _RECENSIONI_| CONCERTI | BALLETTI_|_LINKS_| CONTATTI

direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

Attila

inaugura la stagione 2018-2019 della Scala

L'opera inaugurale della Stagione del Teatro alla Scala è stata Attila di Giuseppe Verdi, melodramma acceso del primo periodo compositivo, che a Milano conta otto proposte dal 1846. L'opera fu composta per il teatro La Fenice ove debuttò il 17 marzo 1846 con protagonisti Sophie Loewe, Ignazio Marini, Carlo Guasco e Natale Costantini, un quartetto mirabile. L'idea di comporre un'opera dal dramma Attila, König der Hunnen di Zacharias Werner era stata messa da parte per I due Foscari che Piave e Verdi crearono per il Tetro Argentina di Roma. Dalla Fenice di Venezia arriva una nuova commissione e Verdi riprende il soggetto accantonato. Considerato lo spirito battagliero dell'opera, il compositore decide di affidare a Temistocle Solera la stesura del libretto, anche se in seguito, quando Verdi si recò nella città veneta per la messa in scena dell'opera, dovette richiamare il Piave poiché Solera era in Spagna. Dopo numerosi rinvii, dovuti alle precarie condizioni di salute di Verdi, con undici settimane di ritardo Attila finalmente andò in scena e riscosse un grandissimo successo. Il pubblico veneziano reagì festosamente alla scena in cui i superstiti di Aquileia giungono in laguna per fondare Venezia. Siamo in un periodo di moti rivoluzionari, e ad alcuni versi il pubblico reagì con grida patriottiche. Memorabile quando il Generale Ezio canta “Avrai tu l'universo, resti l'Italia a me”, il pubblico replicò “A noi! L'Italia a noi”. Paradossale che la censura austrica avesse lasciato inalterata questa scena, la quale contribuì ad acclamare Verdi quale eroe non solo musicale.

Sulla validità musicale di Attila potremmo citare molteplici scritti di musicologi e non avremmo una comune idea. Osborn, ad esempio, è piuttosto fermo nel considerarla a tutti gli effetti partitura minore inferiore addirittura ad Alzira, e trova ben poche pagine da salvare. A mio parere è più equanime Budden, che pur riconoscendo la non eccezionalità dello spartito, afferma che nello stesso sono contenute pagine di alto valore, una fra tutte il terzetto “Te sol, te sol quest'anima”. Si devono inoltre registrare dei passi in avanti nella drammaturgia considerando il personaggio di Odabella, la quale acquista una figura centrale nell'opera. Donna innamorata ma soprattutto fiera guerriera, sentimenti che determinano uno spiccato tono drammatico. La parte fu scritta per lo stesso soprano interprete del ruolo di Elvira nell'Ernani, dunque una cantante dotata di estensione, agilità e un colore brunito, che permette di affrontare la terribile aria d'entrata e in seguito le raffinatezze della seconda aria. Meno indicativa la focalizzazione di Foresto, al quale riserva due arie, ma il personaggio è marginale nello sviluppo teatrale anche se incarna il consueto ruolo dell'innamorato, leggermente più rilevante il ruolo di Ezio, che non fa una bella figura, meschino e traditore. Il protagonista, Attila, è ruolo complesso diviso tra sete di vendetta e terrore per il trascendentale dominato dagli incubi, e il finale atto I, l'incontro con Leone, ha una straordinaria valenza emotiva. Attila oggi dopo un lungo processo di renaissance è tornata in repertorio, come lo fu fino al 1870, e l'aggettivo più appropriato è “risorgimentale” e anche se contiene sviluppi non del tutto risolti, segna il cammino evolutivo di Verdi che di lì a poco fornirà prove notevolmente più rilevanti e l'opera segna forse un gradino importante in questo traguardo.

La lettura che ne fa Davide Livermore non è assolutamente scontata come di prassi per qualsiasi titolo egli affronti, coadiuvato da Giò Forma per le scene, D-Wok per i video e Gianluca Falaschi per i costumi. Un aspetto peculiare di Livermore è l'amore per il cinema e anche in quest'occasione non mancano riproposte vere e proprie di celebri pellicole. Chi scrive può anche condividere tale singolarità, tuttavia credo sia talvolta ripetitivo, ma in occasione di Attila devo rilevare che il progetto funziona più che in altre occasioni. Ovviamente l'ambientazione non è storica ma poiché si parla di guerre e conflitti la collocazione storica nel 1945 è plausibile, dovrebbe essere atemporale ma i riferimenti portano alla fine del secondo conflitto con proiezioni sia di Roma sia di Berlino in macerie. Un immenso ponte sovrasta la scena, sotto il quale arrivano i soldati di Attila che compiono omicidi e violenze con riferimenti espliciti a “Roma città aperta” di Roberto Rossellini. Livermore è creativo senza alterare nulla, anzi l'aspetto bellico con riferimenti a noi ormai lontani ma ancora vivi e presenti nella memoria rendono più reali le drammatiche vicende dell'opera. Inoltre, è stupefacente la cura del dettaglio che il regista ha dimostrato in tutte le scene, per ogni personaggio e ogni comparsa, probabilmente qualcosa si è perso perché molteplici erano i tasselli che componevano una lettura molto ricercata e complessa. Grandi colpi di teatro sono stati il dipinto di Raffaello, durante il sogno di Attila, che si materializza in seguito nel finale, e la grande scena al II atto ambientata in un lussuoso locale di Berlino che ci riporta alle trasgressive e sfrenate feste de' “La caduta degli dei” di Luchino Visconti e anche con riferimenti a “Il portiere di notte” di Liliana Cavani, nella quale senza eccedere riviviamo un clima di terrore e ansia che raramente è riscontrabile in teatro. Se il regista ha saputo dare anima con grande drammaturgia non solo ai protagonisti ma soprattutto al coro e alle numerose comparse con grande intelligenza, non è meno rilevante il lavoro delle videoproiezioni che creano una suggestione grigio-scuro ancora più tenebrosa. Le scene sono di sontuosa imponenza e i cambi a vista denotano una macchina di stupefacente tecnologia. La grande arte di Gianluca Falaschi anche in quest'occasione conferma le doti creative del costumista che firma abiti bellissimi e in perfetta combinazione con il periodo considerato.

Sul podio Riccardo Chailly, il quale ancora una volta sancisce quanto Verdi sia per lui autore prediletto, che segue con mirabile pertinenza. Attila, come predetto, è opera risorgimentale, e Chailly non lo dimentica mai, infatti i tempi sono serrati e ben dosati, senza eccessi, ma puntando su un equilibrio di suono generale. Concertatore di forte esperienza non perde mai il controllo del palcoscenico creando un insieme unico di pregevole musicalità. Raffinato nei momenti intimistici, memorabile com'è offerto il preludio all'aria di Odabella nel primo atto, ma altrettanto vibrante quando si tratta di masse corali e cabalette, impeto e frenesia che caratterizza il primo Verdi. Complice anche un'orchestra in forma smagliante che segue tutte le indicazioni con risultati eccellenti, al pari di un Coro, istruito da Bruno Casoni, di abbagliante precisione e sonorità strepitose.

Il miglior cantante è Ildar Abdrazakov, un Attila imponente e fieramente inquietante ma allo stesso tempo umano, almeno in qualche occasione. Egli sfodera una voce importante e piena, compatta nei registri e contraddistinta da una morbidezza naturale cui si somma un gioco di colori davvero ragguardevole. Saioa Heranandez, Odabella, sfoggia una voce importante e di forte espressione drammatica, con buona possibilità nelle agilità, perfettibili forse, e capace di piegare uno strumento così luminoso in pianissimi di affascinante ascolto. A essere pignoli bisogna rilevare che gli estremi acuti non sono del tutto fermi, e questo solo a distanza di mesi dall'ultimo ascolto, ma il fraseggio è ricercato e gli accenti ben realizzati, nell'insieme comunque un'ottima prova.

George Petean, Ezio, è un corretto baritono dotato di voce importate e rotonda, ma poco espressivo e non raffinato nel colore, ma non crea danni e si colloca in una routine che però oggi è stata innalzata di rango. Fabio Sartori è un buon Foresto, capace di mettere al servizio del personaggio una voce non dotata di suo, ma precisa, musicale e ben equilibrata nei registri, particolarmente luminoso l'acuto. Si prende un successo personale nel III atto quando esegue l'aria “Oh dolore! Ed io vivea” scritta per Napoleone Moriani in occasione della prima scaligera del 1846, e splendidamente eseguita dal tenore veneto. Bravissimo Gianluca Buratto nel breve ruolo di Leone, e altrettanto si deve registrare per l'Uldino di Francesco Pittari.

Pubblico generoso e festante di applausi al termine, meritatissimi.

Lukas Franceschini

5/1/2019

Le foto del servizio sono di Brescia e Amisano.