RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

Dare forma alle idee

La storia interpretativa di Carmen è, come quella di Aida, storia d'un doppio binario: il kolossal della scena del trionfo, in Verdi, ha lasciato in secondo piano quel versante intimistico che informa gran parte dell'opera, mentre nacchere e seguidilla hanno trasformato la couleur locale nella ragion d'essere, anziché nello sfondo, del capolavoro di Bizet. Poi si sa come vanno le cose: i revisionismi scantonano in eccessi opposti, e si è arrivati alle Aide formato Kammerspiel e alle Carmen antioleografiche fino alla destrutturazione.

Teorico teatrale e regista di primissimo piano nell'area ex iugoslava, nonché direttore artistico del Teatro Nazionale Croato di Fiume, Marin Blaževic appare lontano dall'accumulo di materiali visivi cari a una certa tradizione, ma non cade nell'errore di raggelare Carmen nel bozzolo di un intellettualismo privo di forza spettacolare. Se il termometro sono gli allestimenti zeffirelliani all'Arena di Verona, quella di Blaževic – benché portata in scena all'Arena di Pola, sede estiva degli spettacoli operistici di Fiume – è una Carmen “antiareniana”: e, tuttavia, l'assai maggiore stilizzazione del suo segno non è meno catturante. Basta credere in un teatro estraneo a logiche decorative, dove sono la musica e le idee da essa veicolate a creare forme e colori.

Blaževic capovolge le prospettive fin dall'impatto visivo iniziale: coro e solisti agiscono sulle gradinate destinate al pubblico, che, invece, siede nell'area normalmente adibita al palcoscenico. Dunque un luogo antico, con le sue pietre del primo secolo dopo Cristo, per narrare una vicenda comunque declinata al contemporaneo, in abiti moderni: diacronicità e perennità della sigaraia di Merimée non potrebbero essere più evidenti. Niente scenografia: a delimitare gli spazi bastano tre tappeti, colorati ma non sgargianti (come dire Andalusia, sì, però riflessiva). Un gruppo di danzatori – inquietante macchia che si espande, dilatandosi sinuosamente, lungo la gradinata – replica e moltiplica gli stati d'animo dei protagonisti, in un gioco di specchi sempre allusivo e mai didascalico. E quella place dove chacun passe, chacun vient, chacun va, croce e delizia di scenette riempitive per le Carmen tradizionali, qui si risolve facendo interagire i personaggi con alcune decine di spettatori che si prestano a vedere l'opera “al di là della barricata”, ossia sulle gradinate e, dunque, a strettissimo contatto con i cantanti: rottura delle barriere tra pubblico e dramma, spettacolo e spettatore osmoticamente coniugati a memento della Carmen che è in ogni donna e del Don José che è in ogni uomo.

Avere a disposizione una compagnia stabile come quella di Fiume, poi, consente al regista una lunga confidenza, e un altrettanto capillare lavoro, sulle fisicità dei propri artisti: grazie a Ivana Srbljan, costruisce una Carmen androgina nell'involucro e seduttiva nella sostanza, insieme acerba e materica, aggressiva nell'eros ma indifesa nell'amore, incline – fin dall'Habanera – a flirtare con la morte prima che con gli uomini. E la cantante risponde con una voce a sua volta bipolarizzata (l'ottava bassa ha un colore molto più scuro), in cui le disomogeneità si trasformano in plusvalore espressivo, impressionante per forza di penetrazione e sostenuta da formidabili capacità dinamiche: dove pure il “pianissimo” sa farsi drammatico e anche il “fortissimo” sa essere lirico.

Non da meno è il lavoro sulla Micaëla morbida e rassicurante, eppure tutt'altro che asessuata nel suo ruolo di surrogato materno, di Annamarija Knego: e pure in questo caso la voce – tanto lirica per complessione quanto corposa per impasto – appare fertilmente tautologica rispetto all'incarnazione scenica. Meno originale, nella sua un po' meccanica alternanza tra drammaticità dell'accento e lirismo del canto, il Don José di Aljaž Farasin: tra tutti gli interpreti, quello forse più penalizzato dalla necessaria, ma assai perfettibile amplificazione.

In un ruolo basso-baritonale e, tuttavia, ben più calzante ai baritoni come Escamillo, un basso a tutti gli effetti qual è Luka Ortar appare inevitabilmente povero di slancio e squillo. Spicca invece tra le parti di fianco – le compagnie stabili tendono a non distinguere tra primari e comprimari, chi oggi è protagonista domani può ritagliarsi un cammeo – il baritono Robert Kolar: ecco un Morales trasformato in vero personaggio (guappo in divisa, tutore dell'ordine simpatico ma non dei più affidabili), con il viatico di un'emissione robusta e ben proiettata.

Orchestra e coro, si sa, all'aperto non sempre risultano a piombo (tanto più in contesti microfonati) e pure questa volta qualche problema c'è stato, al di là dell'indubbia simpatia della compagine di voci bianche, qui tutte femminili. La concertazione di Yordan Kamdzhalov, peraltro, è apparsa caratterizzata da un mordente epidermico, come talvolta accade ai direttori di estrazione sinfonica quando affrontano Bizet. Ma lo spettacolo resta negli occhi e nella mente. E, a volerlo riassumere in due istantanee contrapposte, è bello congedarsi da questa Carmen ricordando la scena della seduzione nel secondo atto e lo scontro tra i due protagonisti nell'epilogo. La prima un gioco di allontanamenti, con lei che – sdraiata – arretra all'avanzare del maschio, negandosi e provocando. La seconda un progressivo, reciproco avvicinamento – un andare incontro alla morte – in quel lunghissimo ideale proscenio che è la gradinata: dove Carmen non morirà di navaja, ma di un interminabile, annientante bacio di Don José. Ecco una regia capace di dar forma a quella cosa immateriale che sono le idee.

Paolo Patrizi

7/8/2019