RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

Ne avremmo fatto volentieri a meno…

La cagnotte, nel gioco d'azzardo, è il piattino sul quale i giocatori depositano le somme in palio, e per estensione dunque anche un salvadanaio dove, partita dopo partita, coloro che abbiano l'abitudine di giocare insieme raccolgono parte delle vincite per poi spendere di comune accordo i soldi raggranellati.

Appunto La cagnotte s'intitola la commedia di Eugène Labiche, andata in scena al Teatro Verga di Catania, per la regia di Walter Pagliaro, il 22 gennaio, con repliche fino al 7 febbraio. Labiche, apprezzato autore di vaudevilles, genere comico brillante tipico del teatro francese, caratterizzato dall'inserzione di parti cantate nel testo, è noto al grande pubblico per il Cappello di paglia d'Italia, da cui Nino Rota trasse Il cappello di paglia di Firenze. Scrittore di grande successo e quanto mai prolifico Labiche è tuttavia esponente di un genere ormai desueto, sia per le situazioni poste in scena sia soprattutto per l'estrema artificiosità non solo della trama generale, ma anche degli espedienti che la sorreggono e che dovrebbero dar vita agli spunti comici.

Risulta quindi poco felice la scelta dello Stabile di Catania di inserire nella programmazione 2015-2016 tale lavoro, e per una buona serie di motivi. In primis la trama, esile e troppo giocata su espedienti che definire inverosimili è dir poco: tanto per fare un esempio, si è mai visto un commissario di polizia che manda in galera qualcuno senza nemmeno chiedergli i documenti? È possibile che due vecchietti, muniti di una zappa che, chissà perché, i poliziotti non hanno sequestrato, aprano un grosso buco nella parete di una stanza accanto alla quale c'è il commissario? È credibile che, in un'epoca in cui non esistono i cellulari, una persona riesca a trovarne un'altra a Parigi nel giro di dodici ore?

E gli esempi potrebbero moltiplicarsi, inquadrando di fatto una comicità lambiccata, tirata per i capelli, alla quale fa da contraltare una lunghezza spropositata per la trama, che rende di fatto la pièce colma di lungaggini e assolutamente priva di mordente, affidando la risata del pubblico alle solite ripetizioni di battute, a equivoci paradossali che, se nei film di Totò potevano essere funzionali data la statura del comico che li interpretava (ma anch'essi mostrano ormai la corda), se affidati ad una compagnia di attori di medio livello ottengono risultati, ad essere generosi, di gran lunga inferiori a qualsiasi aspettativa.

Va inoltre rilevato che i lavori di Labiche, affidandosi di fatto all'antichissima commedia degli equivoci, mancano di qualunque intento realmente mordace o di critica di costume, tanto per capirci, di quegli elementi che rendono ancor oggi godibili alcune commedie di Aristofane. Ne deriva dunque una comicità priva di nerbo, che dopo un po' annoia, spingendo a chiedersi quale funzione realmente teatrale abbia oggi il riproporre tali opere, né realistiche, né surreali, né satiriche, né d'intreccio, tolto forse il dare spazio al comico di turno, nella fattispecie Pippo Pattavina, nel tentativo di attirare il pubblico col suo nome.

E del resto, anche la regia di Walter Pagliaro, pur se gradevole, nulla faceva per rendere accattivante in qualche modo la pièce, affidata com'era alle scene minimaliste di Luigi Perego, più adatte al teatro moderno che a quello di primo Ottocento. Inoltre, il taglio registico e la direzione degli attori, se ha lodevolmente evitato le caricature estreme e i debordamenti consueti della comicità affidata a Pattavina, ha però costretto gli interpreti ad una legnosità di fondo che, se ha infuso compostezza alla recitazione, ha rischiato più volte di dar vita a movenze burattinesche e forzate, che non hanno aiutato affatto la rappresentazione, alla quale comunque è mancata quella velocità (due ore e mezza intervallo escluso erano davvero troppe per una storia così annacquata) che sola avrebbe potuto imprimere una vis comica decente allo spettacolo.

Discrete tutto sommato le prove degli altri attori, Gian Paolo Poddighe, Vittorio Viviani, Giovanni Argante, Valeria Contadino, Fulvio d'Angelo e Margherita Mignemi, patentemente non proprio a loro agio nei ruoli, e sotto sotto scalpitanti per una maggiore libertà espressiva.

Quanto alle musiche di Germano Mazzucchetti, interpretate al pianoforte da Giuseppe Infarinato, non offrivano particolare supporto, rimanendo abbastanza estranee al contesto e alle carenti doti canore di tutta la compagnia.

Giuliana Cutore

24/1/2016

La foto del servizio è di Antonio Parrinello.