RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

9/4/2016

 

 


 

Ludwig da camera by Lachner

Il ciclo di concerti Le domeniche dell'Auditorium (l'Arturo Toscanini di Torino) dell'Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai (OSN), che nasce con lo scopo di proporre matinée di repertorio cameristico, si è concluso domenica 22 aprile 2018 con un programma tutto beethoveniano. Non i soliti prevedibili Quartetti, né tantomeno una selezione di Sonate per violino e pianoforte. Il programma ha previsto i primi due Concerti per pianoforte e orchestra. Ora, chiunque sappia qualcosa di queste composizioni, sa che tutto sono, fuorché musica da camera. Non tutti sanno, però, che di questi concerti esiste anche una riduzione per archi e pianoforte a firma di Vinzenz Lachner (1811-1893), compositore, direttore e insegnante tedesco, approntata per motivi essenzialmente pratici e didattici. E proprio queste versioni sono state eseguite, con un complesso ridotto (cinque violini primi, quattro secondi, tre viole, due violoncelli e un contrabbasso: quindici professori in tutto, il Complesso da Camera dell'OSN) e un solista/direttore quale Andrea Bacchetti, enfant prodige genovese che debutta come concertista a 11 anni e oggi, a quaranta, quasi quarantuno, può vantare una carriera di tutto rispetto e un'eclettica discografia.

Il pregio delle riduzioni di Lachner è quello di conservare la struttura dei Concerti beethoveniani, snellendoli di quegli strumenti (flauti, oboi, corni, trombe, timpani) che, pur facenti parte integrante dell'orchestrazione, non sono ancora fondamentali, nella scrittura di Beethoven, per lo sviluppo del discorso musicale, incentrato soprattutto sul rapporto tra il pianoforte e gli archi intesi come deuteragonista collettivo di un'azione a due (similmente a quanto già accadeva nei Concerti mozartiani). Certo, si può obiettare che perdano un poco di maestosità e di smalto; ma per l'epoca erano un ottimo compromesso per far circolare queste composizioni nei salotti nobiliari, talvolta non sufficientemente spaziosi da ospitare… un'orchestra intera...

Il Concerto per pianoforte e orchestra n°1 in do maggiore Op.15 è in realtà il secondo in ordine di composizione (tralasciando un “Concerto n°0” scritto negli anni di Bonn e non incluso da Beethoven nel suo catalogo ufficiale), vedendo la luce tra il 1795 e il 1798, e, come il Concerto per pianoforte e orchestra n°2 in si bemolle maggiore Op.19, scritto per primo tra il 1794 e il 1795, venne portato in giro per l'Europa dall'autore stesso nell'unica tournée che lo vide brillare a Berlino, Praga, Dresda, Budapest e altre città, riscuotendo immediato e vivido consenso, soprattutto per il suo inserirsi, in quanto a stile, nell'alveo dei modelli di Franz Joseph Haydn, Wolfgang Amadeus Mozart e Johann Christian Bach: musica galante, impegnativa, sì, ma non al punto da scardinare una scaletta prevedibile di tappe e di emozioni tracciata dai suoi predecessori. Si potrebbero quasi dire due “prove generali” fatte da un Beethoven venticinque-ventottenne per prendere dimestichezza con un genere che, con la produzione successiva, avrebbe scosso dalle radici, offrendo il trampolino per lo sviluppo del Concerto solistico romantico. I punti in cui si vede emergere tutta la personalità matura di Beethoven sono le cadenze: la differenza balza all'orecchio, perché sono state scritte nel 1807-09, quasi dieci anni dopo la stesura dei Concerti: dieci anni in cui nel frattempo erano nate opere del calibro delle Sonate Al chiaro di luna, Waldstein, Appassionata, e del Terzo, Quarto e Quinto Concerto per pianoforte e orchestra.

Bacchetti ama la limpidezza, la forma, l'equilibrio, la leggerezza: qualità che emergono lampanti nell'esecuzione di questi Concerti, che scivolano via scorrevoli, puliti ed eleganti come una porcellana di Meissen, complice l'organico, s'è detto, ristretto e perciò dal suono più contenuto, intimo. Ciò non ha impedito a Bacchetti di sfoderare i muscoli al momento delle cadenze, con tecnica solida e sicura, che lo ha d'altro canto accompagnato per l'esecuzione di tutti e sei i tempi. La disposizione degli strumenti, contrariamente a quella adottata di solito, ha previsto il solista/direttore di spalle, e non di profilo, rispetto al pubblico, circondato a ferro di cavallo dagli archi, in modo da poterli dirigere con lo sguardo: attenzione al dettaglio e alla ricostruzione filologica, questa, di quando il direttore e solista era sovente anche l'autore, che non deve passare inosservata e che è da confrontare con quelle esecuzioni a piena orchestra ove il volume sonoro sprigionato da una selva di strumenti mal si adatta alle fattezze ancora settecentesche di questi lavori (contestualmente si dovrebbe affrontare il discorso sul tipo di strumento a tastiera in voga all'epoca dell'Op.15 e 19, non proprio il moderno pianoforte, ma il progenitore dal suono meno potente e con la cui potenza rapportarsi al momento di scegliere le dimensioni dell'organico). Il Complesso da Camera dell'OSN, da parte sua, ha sostenuto egregiamente la sua parte, dimostrando, per il grande affiatamento, quasi superfluo il ruolo del direttore, che si limitava in effetti a sguardi significativi, oltre che a cenni con le mani, quando non impegnate alla tastiera.

Al termine del concerto, a riprova del gusto spiccato di Bacchetti per il repertorio classico/barocco, due encore bachiani (quanto Bach è presente nella discografia di questo pianista!): prima il complesso, serrato e articolato Preludio dalla Suite Inglese n°2 in la minore BWV 807, poi l'Aria dalle Variazioni Goldberg BWV 988, eseguita, seppure un poco frettolosamente, con tanto di doppio ritornello.

Christian Speranza

2/5/2018