RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

Tra le piume della Capinera

Prova generale al Bellini

Domenica 9 dicembre andrà in scena, in prima mondiale, La capinera, melodramma moderno su musiche di Gianni Bella, arrangiate, orchestrate ed elaborate da Geoff Westley, su liriche di Mogol e su libretto di Giuseppe Fulcheri: l'opera, che chiuderà la stagione lirica e sinfonica 2018 del Bellini di Catania, sarà in scena presso il nostro teatro appunto dal 9 al 18 dicembre. Naturalmente, un evento di tal genere, sebbene sia costume abbastanza comune fra i grandi teatri proporre episodicamente opere in prima assoluta, ha destato grandissimo scalpore nella nostra città e ha conseguentemente richiamato, soprattutto grazie a Gianni Bella e a Mogol, storico paroliere di Lucio Battisti, un notevole afflusso di critica nazionale e di pubblico che ha indotto la direzione del Teatro a proporre una prova generale aperta il 7 dicembre, col pagamento di un simbolico biglietto di venti euro, il che da un lato ha consentito anche al pubblico meno abbiente di fruire di questa nuova opera, dall'altro a chi, come il nostro giornale, fosse stato interessato a informare più che tempestivamente il proprio pubblico, di farlo con assoluto agio. È per questo che, in via eccezionale, la nostra critica sarà basata proprio sulla prova generale, che si è svolta nel tardo pomeriggio, senza però un grande afflusso di pubblico, dato che, come abbiamo avuto modo di constatare amaramente, il teatro era semivuoto, cosa che certo non depone proprio a favore della curiosità dei catanesi, dato anche che l'opera, tratta dal romanzo Storia di una capinera di Giovanni Verga, è proprio ambientata a Catania, con riferimenti diretti alla nostra Santa patrona e alle caratteristiche sociali di una città ottocentesca che avrebbero dovuto comunque rappresentare un notevole polo d'attrazione per il pubblico.

Ma tralasciamo questi particolari di poco conto, che siamo certi saranno compensati da un soddisfacente plauso e da una buona affluenza di pubblico nelle recite ufficiali, e passiamo senz'altro a fornire un resoconto dello spettacolo al quale abbiamo assistito. Lo si definisce un melodramma moderno, ma certo non è molto sicuro che lo sia, almeno a giudicare dalla musica che abbiamo ascoltato e dal libretto che, grazie ai sopratitoli in italiano e in inglese, abbiamo avuto modo di seguire con grande facilità.

Cominciamo dal libretto: Mogol sarà anche un grande paroliere, ma purtroppo qui il suo genio non ha brillato in maniera particolare, né tampoco lo ha fatto la musa di Giuseppe Fulcheri. Il libretto si sviluppava in maniera abbastanza tradizionale, in un linguaggio dolciastro, a tratti addirittura melenso, dove il senso logico era spesso difficile da trovare. Oltre a un uso spropositato della rima, in tutte le sue declinazioni, da quella interna, a quella grammaticale a quella identica, a una prevalenza inusitata delle dentali sulle labiali e le liquide (con conseguenze sul canto immaginabili da chiunque) e a schemi ormai triti e ritriti, specie dopo la rivoluzione operata dall'Ermetismo, e molto prima di esso dai fluidi e sinuosi endecasillabi sciolti di Leopardi, il libretto proponeva una serie di termini che farebbero rivoltare nella tomba, per la loro generica incantabilità, tutti gli operisti da Bellini in poi: basti pensare a un obbrobrio fonico, ipermoderno, come destabilizzazione, passando poi per un'ossessiva elettricità declamata alla stregua di un assunto filosofico, finendo infine con piacevolezze logico-foniche del tipo la speranza… che affoga nel vino, o meglio ancora Beviamo a Catania che muore sul mare, lei possa tornare più grande che mai, o Cancellavo l'assenza con un no alla coscienza, in un misto di similitudini agresti, naturalistiche e boschive, spesso ripetute in maniera ossessiva, più adatte alla poesia arcadica che al Terzo Millennio.

Ma, tralasciando queste notazioni stilistiche, sono due a nostro parere i difetti capitali di questo libretto: innanzitutto i recitativi che vanno tranquillamente per i fatti loro rispetto alla musica, per cui i cantanti sono stati spesso costretti a mangiare e a borbottare parole, perché in caso contrario si sarebbero trovati ben indietro alla musica; secondariamente, la sua totale mancanza di drammaticità, di stringatezza, di pregnanza, di una qualsivoglia profondità dei personaggi, e questo dopo che da Bellini in poi tutti gli operisti si sono adoperati per legare quanto più possibile musica e parola, alla ricerca di quella parola scenica che scolpisse un personaggio esaltando al tempo stesso il fraseggio e l'espressività del cantante. In una parola, è come se per Mogol e Fulcheri l'opera fosse ferma al Barocco, ma a un Barocco privo dello scintillio del genio poetico e della metafora ardita, e musicalmente del fuoco di artificio delle superbe arie di cui era maestro Farinelli. In buona sostanza, si tratta di un libretto antiquato, sia per linguaggio che per struttura ritmica e drammatica, che difficilmente può essere proposto, non dopo Schönberg o Berg, ma nemmeno dopo Puccini, che tormentava i suoi librettisti quando incontrava parole sdrucciole, e che non avrebbe certo tollerato l'abnorme uso dei pronomi personali, anch'essi poco cantabili se proposti a ogni piè sospinto, e da limitare a momenti ben definiti e tragici, specie visto che l'italiano, lingua a soggetto nullo, non ha alcun bisogno di una pletora di pronomi a rimpolpare un libretto di per sé già di difficile e perigliosa musicabilità.

Quanto poi all'aspetto drammatico in senso stretto, abbiamo notato che è costruito più come una serie di bozzetti che come un ductus narrativo, con uno scavo psicologico dei personaggi pressoché inesistente e con una dinamica di sentimenti stereotipa quando non francamente schizoide: anche qui non si va oltre certi libretti barocchi (non certo quelli di Metastasio) o del famigerato Tottola. Un ultimo appunto, prima di passare alla musica, sul personaggio del Colera, chiaramente esemplato sulla personificazione della Carestia di tempiana memoria: il librettista lo ha costruito come una sorta di demonio pentito, di spirito del male in contraddizione con se stesso, perché forzato a fare il male. Goethe definiva Mefistofele lo spirito che vuole sempre il male e opera sempre il bene: peccato che Fulcheri non sia Goethe… Accompagnato sempre sulla scena da una figura femminile in preda a contorcimenti vari, che non si capisce bene chi sia né a cosa serva, questa personificazione manifesta una strana tendenza alla dissociazione, specie nel secondo atto, fornendo al pubblico un lungo monologo dove sembra pentirsi di aver scatenato un'epidemia, lamentandosi persino di aver dovuto vivere senza un po' d'amore e di non essere mai stato capito …. Strano lamento per un vibrione che in fin dai conti non ha fatto altro che il suo mestiere!

Sul fronte musicale, non si può certo dire che le cose siano andate meglio: si trattava di musica esclusivamente tonale, con ritmi assolutamente tradizionali, senza alcun accenno di polifonia e orchestrata in stile americano, dunque con una notevole prevalenza di fiati e percussioni, queste ultime utilizzate anche sui cantanti, col risultato di sovrastarli e rendere ancor più ingrato il loro compito, inducendoli spesso a forzare negli acuti con risultati non sempre accettabili. Le sequenze melodiche ripetute più e più volte, senza un'elaborazione armonica, senza uno sviluppo, senza modulazioni di particolare efficacia, rendevano l'ascolto spesso faticoso e noioso, in special modo nelle parti corali e in quelli che grossomodo potremmo chiamare concertati alla fine di ogni sequenza drammatica, dove l'assenza di una qualsivoglia polifonia, con i cantanti che quasi sempre cantavano all'unisono fra loro e col coro, rendeva il tessuto musicale assolutamente piatto e privo di una qualunque vis drammatica. Lo stesso dicasi per i duetti o presunti tali, ridotti alla ripetizione della stessa frase melodica senza il pur minimo accenno a una variazione o a un qualsiasi espediente armonico atto a rendere meno orizzontale e monocorde il tessuto musicale. Unici momenti un po' appassionanti sono stati la scena della processione di Sant'Agata, perché esemplata, ma solo strutturalmente, su Cavalleria, e quella del matrimonio tra Nino e Giuditta, sorellastra di Maria, che ripeteva la struttura del Te Deum del primo atto di Tosca, con la madre Badessa al posto di Scarpia a fare da contraltare al latino del coro (a proposito: il vocativo di Dominus è Domine, e non Dominus, come recitava il sopratitolo).

Sul fronte registico, curato da Dante Ferretti, a cui si devono anche scene e costumi, va detto che da un vincitore di premi Oscar ci si sarebbe potuti aspettare qualcosa di più di una oleografica apertura su Catania con tanto di Porta Ferdinandea (riproposta insieme al suo mascherone apotropaico sul vertice che somigliava a un diavolo, durante la scena del matrimonio, a inquadrare una riproduzione di una crocifissione cinquecentesca), di masse corali disposte in maniera assolutamente statica, di movenze pressoché tradizionali e di arredi anodini. E ci si sarebbe aspettati che risolvesse in maniera un po' più originale l'incontro tra Maria e la monaca pazza, rinchiuse nella stessa cella (ma perché poi, se Maria non si è ancora monacata?), evitando di ridurla a una poveretta in preda a strisciamenti vari e a carezzamenti di dubbia origine. E ci si sarebbe aspettati che ricordasse che, quando una fanciulla si monacava, volgeva la testa verso l'altare e non i piedi, come è invece avvenuto sul palcoscenico del Bellini.

Se la musica era non proprio egregia, il maestro Leonardo Catalanotto, insieme all'orchestra del nostro Teatro, sempre poliedrica e professionalmente agguerrita, è riuscito comunque a trarne il meglio, esaltandone per quanto è possibile l'aspetto cinematografico e i pochi momenti lirici che essa conteneva. Precisi e puntuali gli interventi del coro, diretto da Luigi Petrozziello. Anche il cast si è adoperato al meglio, facendo in modo che le discrepanze tra musica e libretto fossero limitate all'essenziale, grazie soprattutto a una grande professionalità e a un'ottima dizione: il soprano Cristina Baggio, Maria, ha interpretato con grazia il ruolo della fanciulla fragile e intimorita dal mondo che all'improvviso le si para davanti, fornendo al suo personaggio un candore giovanile e un'accorata e intima disperazione che hanno in parte rimediato allo stereotipo vocabolario del libretto. Bene anche Sonia Fortunato (mezzosoprano) e Sabrina Messina (soprano), rispettivamente la matrigna e la sorellastra Giuditta, mentre Andrea Giovannini, nel ruolo di Nino, si è disimpegnato discretamente, pur con qualche incertezza che siamo sicuri risolverà al debutto di giorno 9. Quanto a Francesco Verna, nel ruolo del padre di Maria, ha confermato ancora una volta le sue promettenti doti di baritono dalla voce morbida e ben timbrata, sicura tecnicamente, immune da asprezze nella zona acuta e da fastidiose sbiancature in quella media. Di apprezzabile livello anche la prova del basso Carlo Malinverno, il Colera, sebbene un cantante dal timbro più grave avrebbe reso forse più credibile il personaggio, e del contralto Lorena Scarlata nel ruolo della Badessa.

Giuliana Cutore

8/12/2018

Le foto del servizio sono di Giacomo Orlando.