RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

«Cosa accade agli eterni?»

Non è più tempo di pelli d'orso e di elmi alati: per ragioni meramente economiche, oltre che squisitamente estetiche. Per questo, nessuno si è meravigliato nel trovare totalmente, irrimediabilmente vuoto il palcoscenico del Teatro Massimo di Palermo, pronto ad ospitare il titolo inaugurale della nuova stagione lirica, Götterdämmerung (Il crepuscolo degli dei) di Richard Wagner. Giunge a tre anni di distanza la conclusione del Ring des Nibelungen, la Tetralogia che il Massimo teatro isolano aveva progettato, nel 2013, per celebrare il bicentenario della morte del compositore tedesco, affidandolo alle cure di uno dei maggiori registi del nostro tempo, Graham Vick. Dopo Das Rheingold e Die Walküre, a causa del taglio dei finanziamenti ai teatri, l'imponente produzione era stata sospesa e rimandata sine die: la vena dell'oro – e non solo del Reno – si era tristemente inaridita, quasi a voler ricordare, ancora una volta, che de te fabula narratur, quando l'opera diventa specchio impietoso del tempo. Pure, Vick aveva profeticamente previsto quanto sarebbe occorso, immaginando un allestimento ‘povero', ben lontano dalle elefantiache, monumentali bellurie di un tempo: già nei primi due episodi del ciclo sulla scena non c'era nulla, puramente e semplicemente, eppure l'intero teatro era abitato dalla palpitante, calamitante presenza di quaranta mimi, ragazzi assoldati allo scopo dichiarato di fornire un lavoro – sia pur temporaneo – a chi doveva raccontare e commentare l'azione. Dal niente al tutto, il Walhalla, «la sacra sala della letizia», «l'opera eterna» costruita sulla vetta del monte, era diventato l'intera sala del Massimo, rilucente dei suoi antichi splendori, mirabolante cassa di risonanza del racconto epico. E così è stato anche per l'ultima giornata del ciclo, e forse anche di più.

Rispetto alle prime giornate, infatti, è la parte musicale ad aver subito un indiscutibile, strepitoso salto di qualità. Sul podio è stato infatti chiamato Stefan Anton Reck, specialista del repertorio tedesco, che per quattro anni, fino al 2003, era stato direttore musicale del Teatro del capoluogo isolano. Trascinante si è rivelata la sua conduzione di una materia sonora magmatica, fluida, perfettamente levigata, tornita, modellata sul ricomparire e variarsi – per l'ultima volta – di temi conduttori impiegati per la gigantesca costruzione drammaturgica dell'insieme. Götterdämmerung, peraltro, è l'opera che contiene il più vasto numero di pagine esclusivamente strumentali dell'opera – dal sorgere del sole al viaggio di Siegfried sul Reno, fino al pendant conclusivo della celeberrima Marcia funebre – che qui assumono un carattere antologico, riepilogativo, cui Reck infonde una partecipe tinta di malinconia, eroica ma sobria, degna, austera. Le effusioni liriche assumono così tutta la loro potenza tragica, ma sin dal principio prefigurano il grandioso explicit, la fine del corso degli dei e l'inizio di un nuovo ciclo di vita, ancora da definire.

E più dalla fossa orchestrale – che opportunamente si dilata ai palchi di proscenio – si scolpisce un tessuto musicale che guarda alle vette dell'eroico e del sublime, più vengono valorizzate le presenze terrene e terragne, gli intrighi e le lotte di potere di una vasta galleria di personaggi. In apertura e in chiusura, le tre Norne (una strepitosa, abissale Annette Jahns, con Christine Knorren e Stephanie Corley) e le figlie del Reno (le ultime due, con l'aggiunta di Renée Tatum) prefigurano un fosco futuro quindi ammoniscono sulle colpe del passato, in una visione ciclica della natura che non è – né può essere – a somma zero. E al centro dell'intera vicenda si pone il Siegfried di Christian Vogt, forse l'unico bemolle dell'intera distribuzione perché semplicemente attendibile, eroico solo nel duetto iniziale ma poi affaticato da una prova improba, soprattutto nel racconto conclusivo. Trionfano invece le forze del male: giganteggia l'Hagen di Mats Almgren, di strepitosa evidenza vocale e scenica, al fianco dell'Alberich comprensibilmente invecchiato e stanco di un sempre grande Sergei Leiferkus; cattura e impressiona pure la coppia dei fratelli Ghibicunghi, la seducente Gutrune di Elizabeth Blancke-Biggs ma più ancora il magnetico talento dell'esplosivo Eric Greene, che vuole Gunther strisciante e insinuante, gradasso e sopra le righe. Solo l'opulenza, la rotondità vocale di Viktoria Vizin, accorata Waltraute, sembra voler lottare contro il precipitare degli eventi.

Ma la distribuzione palermitana ha una punta di diamante e di assoluta eccellenza nella Brünnhilde di Iréne Theorin, per la quale può forse valere un solo aggettivo, sublime, e un unico paragone, quello con la somma Birgit Nilsson. Voce torrenziale, di potenza impressionante, incarna una valchiria di straordinaria potenza ed energia: tutto questo, tuttavia, senza mai compromettere un'espressività, una consentaneità con la prosodia wagneriana da impeccabile, insinuante liederista. L'impalpabile pianissimo su cui attacca «Ruhe, ruhe, du Gott!» è non soltanto l'avvincente inizio della fine, ma anche la premonizione dell'imminente palingenesi generale.

Spira un desiderio di catarsi che – grazie all'idea registica di Vick – non riguarda solo il palcoscenico, che pure è luogo deputato della rappresentazione, ma coinvolge l'intera sala: loro ma anche noi, quel che resta degli dei ma anche di noi, spettatori di un mondo in cerca di dei. È umano, fin troppo umano il mondo che Vick – di conserva con i suoi collaboratori abituali, Richard Hudson per le scene e i costumi, Giuseppe Di Iorio per le luci, e Ron Howell, che cura i movimenti coreografici – dispiega sotto i nostri occhi: con immagini talmente vivide e potenti da lasciare senza fiato. E la chiave di lettura viene forse fornita da un quesito posto da Brünnhilde alla sorella Waltraute: «Cosa accade agli eterni?» Di Wotan, esiliato nel mondo come un viandante, come della veggente Erda non c'è più traccia sin da Siegfried; le tre Norne hanno il (ci)piglio di tre pericolose burocrati; e le Figlie del Reno, come già nel Prologo, attirano l'eroe con pose lascive, tanto esplicite quanto inequivocabili: è la febbre dell'oro a guidarle, non certo la salvezza dell'umanità. Su tutto aleggia un'aura di fine del tempo ormai inarrestabile: il campo di papaveri in odor di Manet, che era stato fiammeggiante sfondo per Die Walküre, è ora slavato fondale dello spento ménage tra Brünnhilde e Siegfried; perfino Alberich – ed è scena di soggiogante intelligenza scenica – viene portato a passeggio da Hagen su una sedia a rotelle. Anche i cattivi, insomma, sono ormai vittime del destino che essi stessi hanno colpevolmente contribuito a forgiare.

La migliore dimostrazione è fornita – qualora ce ne fosse bisogno – dalla reggia dei Ghibicunghi: di un candore accecante, ma illuminata da due lussuosi lampadari precipitati al fianco di un semplice materasso, dove si consuma l'ultima, incestuosa orgia tra i due ambiziosi figli di Ghibich. Solo Hagen, infatti, sembra mantenersi lucido nella reggia, visto che gli altri sono – come recita la vistosa marca degli slip di Gunther – addicted al sesso e alla droga: il patto di sangue con Siegfried verrà siglato con tanto di laccio emostatico al braccio e di una siringa che unisce il destino dei due contraenti. Di grande virtuosismo è il Finale II, la scena del doppio matrimonio, che qui diventa un evento mediatico in cui è coinvolto tutto il teatro: la doppia coppia di sposi attraversa infatti tutta la sala, paparazzata da telecamere e giornalisti, prima di raggiungere il palcoscenico, dove l'aspetta – dietro una impenetrabile cortina di ferro – un'umanità cloroformizzata dalla partecipazione all'evento. L'apparire prende il sopravvento sull'essere e segna l'irreversibile principio della fine, che coincide con l'amara presa di coscienza di Brünnhilde: il mondo scivola ormai verso un inesorabile crepuscolo.

Götterdämmerung segna la fine non soltanto del vasto ciclo wagneriano, ma di un'imponente costruzione drammaturgica. Graham Vick domina la materia scenica con una forza visionaria, permeandola con un'impronta di sconvolgente pessimismo. Che s'impone in tutta la sua evidenza al momento della morte di Siegfried e di una Trauermarsch che – secondo la volontà dell'autore – diventa momento di sintesi dell'universo musicale che attraversa le giornate precedenti. Quando Siegfried muore, un sacco a pelo di plastica, lo stesso che alla fine della prima giornata aveva ospitato Brünnhilde, accoglie l'eroe. Sullo sfondo tutto ciò che era servito per “costruire” il Ring: una roulotte arrugginita e materassi sfondati, sedie stile Impero e giganteschi girasoli, teli di plastica e un orsetto di peluche, i computer della ‘Borsa' dei Nibelunghi e le scavatrici dei Giganti, un numero imprecisato di sacchi dell'immondizia. È un viaggio nella memoria – uno sprone, in un paese immèmore – posto sotto il segno della monumentalità e della materialità, ad immagine dell'estetica delle rovine di Anselm Kiefer, capace di riflettere tanto la malinconia, che sta al centro del processo creativo dell'artista, quanto la sua fiducia nella rigenerazione. A questo fa pensare la pira di Siegfried e Brünnhilde, una gigantesca costruzione che raccoglie quel che resta della nostra civiltà. E il Walhalla siamo noi, pronti a ricevere l'anello, che – provocatoriamente? – viene lanciato al pubblico.

Ma poi le luci dorate, che hanno invaso la sala, lentamente diventano di ghiaccio, e il sipario di ferro cala sul palcoscenico, poco prima che l'opera si concluda. Al proscenio rimane solo una teoria di figuranti, la lunga fila dei protagonisti dello spettacolo: rivolti al pubblico, aprono soprabiti e cappotti per rivelare le micce di mille candelotti di dinamite, con cui sono pronti a farsi esplodere. Esiste ancora un futuro per questo mondo?

Giuseppe Montemagno

26/2/2016

Le foto del servizio sono di Rosellina Garbo.