RECENSIONI
-

_ HOMEPAGE_ | _CHI_SIAMO_ | _LIRICA_ | _PROSA_ | _RECENSIONI_| CONCERTI | BALLETTI_|_LINKS_| CONTATTI

direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

Legge di Murphy piacentina

La legge di Murphy, enunciata scherzosamente da Edward Murphy nel 1949, afferma che «Se ci sono due o più modi di fare una cosa, e uno di questi modi può produrre una catastrofe, allora qualcuno la farà in quel modo». Tradotto, se una cosa può andar male, lo farà. Scrivendo Don Alvaro o la fuerza del sino, nel 1835, il duca di Rivas, al secolo Ángel de Saavedra y Ramìrez, sembra quasi che l'abbia applicata intenzionalmente, facendone il motore drammaturgico per una vicenda in cui i personaggi, di volta in volta, anche a distanza di tempo e di luogo, si vengono a trovare nelle condizioni più sfavorevoli possibili, con inevitabile conclusione tragica. Come si suol dire: sarà destino. Vi è di che accontentare proprio tutti: eventi storici e guerreschi, un amore contrastato, agnizioni, vendette inesorabili, un'infilata di personaggi memorabili e caratteristici… insomma, gli ingredienti ideali per dar vita al libretto di un grand-opéra alla francese. Per la precisione, quello che Francesco Maria Piave cavò per Giuseppe Verdi, che il 10 novembre 1862 presentò La forza del destino al Teatro Imperiale (oggi Teatro Mariinskij) di San Pietroburgo: non proprio un grand-opéra, ma poco ci manca. Per la verità Verdi avrebbe voluto musicare un'opera ispirata al Ruy Blas di Hugo, soggetto che lo stuzzicava da un po'; peccato che Hugo, in Russia, fosse vietato dalla censura. Allora cambiò idea, orientandosi sul Don Alvaro del duca di Rivas, che aveva letto nella traduzione italiana di Faustino Sanseverino (Milano, 1850). Lo trovò talmente potente, variegato e teatralmente trasponibile, che a niente valse il fatto che intanto in Russia la censura avesse acconsentito a chiudere un occhio su Hugo pur di ottenere un'opera del maggior musicista italiano in circolazione. Sarà stato il fatto di aver ritrovato nel Don Alvaro quello spirito picaresco che già lo aveva spinto a comporre Il trovatore (1853), o di avere a disposizione una trama densissima, ricca di rovesciamenti e colpi di scena improvvisi (fin troppa carne al fuoco, a detta di qualcuno), cosa che la apparenta a a quella del Dom Sébastien, roy du Portugal di Donizetti; fatto sta che, dopo due anni di inattività (Un ballo in maschera risale al 1859), Verdi torna alla ribalta sfornando un altro capolavoro. L'anno dopo La forza debutta in Italia al Teatro Apollo di Roma (7 febbraio 1863), ma ad imporsi definitivamente è la versione di Milano (Teatro alla Scala, 27 febbraio 1869), in occasione della quale viene scritta la sinfonia d'apertura, rielaborando e ampliando il precedente preludio, cambiato il finale (nella versione del '62 Don Alvaro muore gettandosi da una rupe, in quella del '69 sopravvive) e modificato l'ordine di alcune scene, soprattutto nel terzo atto. Il libretto di Piave viene opportunamente riveduto da Antonio Ghislanzoni: quello stesso Ghislanzoni che Verdi vorrà come collaboratore per Aida pochi anni dopo (a proposito: in quello stesso 1869 verrà inaugurato il Teatro del Cairo con un altro titolo verdiano: Rigoletto).

La versione del '69 è anche quella presentata al Teatro Municipale di Piacenza nel mese di gennaio 2019. Un evento in coproduzione con la Fondazione Teatri di Piacenza, la Fondazione Teatro Comunale Luciano Pavarotti di Modena e la Fondazione I Teatri di Reggio Emilia, che ha attirato l'attenzione degli appassionati per la sua esecuzione integrale (o quasi) e per la presenza di un cast qualitativamente interessante, il tutto sotto la bacchetta di Francesco Ivan Ciampa alla testa dell'Orchestra Regionale dell'Emilia-Romagna. Il direttore avellinese, già allievo di Carlo Maria Giulini e Bruno Aprea e già collaboratore di direttori del calibro di Antonio Pappano e Daniel Oren, ha efficacemente sbozzato la partitura verdiana, sapendo dar risalto agli interventi solisti (quasi ubiquitario il primo clarinetto Daniele Titti) quanto alla piena orchestra: una direzione energica ma non nervosa o esagitata, sempre sostenuta col dovuto polso anche nei tempi e nei passaggi più ammalianti, senza inutili patetismi.

Il cast, si diceva. Splendida la coppia protagonista. Donna Leonora è una stupefacente Anna Pirozzi (un nome, una garanzia), soprano lirico estremamente musicale, dotata di efficace proiezione vocale, che, oltre ad entusiasmare per tutta la recita di domenica 20 gennaio, di cui si riferisce, coglie un vero e proprio trionfo con Pace… Pace, pace, mio Dio! (IV, vi), bissata di concerto con Ciampa, vista l'accoglienza di interminabili applausi. Entrambe le volte risulta impeccabile e notevole il filato, ben tenuto, e l'acuto poderoso che lo segue. Non da meno è il Don Alvaro di Luciano Ganci, tenore stentoreo che fino all'ultimo non mostra cenni di cedimento, né si risparmia lungo i numerosi interventi del suo ruolo, a suo agio nei gravi come negli acuti, senza assottigliare mai il volume. Squillante e prestante in La vita è inferno all'infelice… O tu, che in seno agli angeli (III, i), si distingue per una convincente espressività e per l'interpretazione del testo. L'antagonista è il baritono Kiril Manolov, nel ruolo di Don Carlo di Vargas, sul quale si è accanito, con veemenza non del tutto giustificabile, il pubblico, a forza di fischi e di un buuu! dopo Morir!… Tremenda cosa!… (III, v). Al termine del duetto tra Don Alvaro e Don Carlo (IV, v), il suddetto pubblico si abbandona poi a reazioni scomposte di disapprovazione, anche in dialetto locale. Lo salva il buio della sala: sarebbe in grado di ripetere le stesse cose vis à vis con Manolov? Non si sa. Quel che si sa è che, a onor del vero, l'astio del pubblico trova la sua ragione in una voce sgraziata, non ben tornita, e in qualche défaillance nelle note acute, date soprattutto da un antipatico ritorno di saliva in gola, che spezza gli acuti. È da dire: senza dubbio si tratta dell'anello debole di un cast altrimenti omogeneo; ma, a fronte di apprezzate recenti interpretazioni di Simon Boccanegra (stando sulla fiducia di chi l'ha riportato, ché chi scrive non era presente), sembra plausibile che Manolov non fosse completamente in forma nella recita del 20 gennaio. La serata “no” può esserci per tutti (si è già detto che se una cosa può andar male, lo farà? D'altro canto è nota la fama che segue da presso il titolo verdiano...). Scorrendo il curriculum riportato nella monografia di sala, infatti, ci si stupisce della sfilza di premi che ha collezionato: possibile che tutte le giurie siano state così sorde e così miopi? Difficile crederlo.

Valido anche il numeroso cast dei ruoli minori. A dare avvio all'opera è il Marchese di Calatrava di Mattia Denti, voce di tutto rispetto, forse leggermente statica ma che, calata nel personaggio, lo rende un credibile e valido nobile di Spagna della seconda metà dell'Ottocento (tale la volontà del regista, che lo esplicita coi costumi di Simona Morresi). Bene anche la Curra di Cinzia Chiarini. Dignitoso e disinvolto Juliusz Loranzi nel doppio ruolo dell'Alcade prima e del Chirurgo di campo poi. Che dire di Judit Kutasi? Una Preziosilla che sa il fatto suo, tanto per la recitazione, quanto soprattutto per la voce, che squilla anche nel registro acuto e che sfodera picchettati precisi e brillanti, calando lievemente di qualità dal II al III atto (al momento del Rataplan). Molto convincente il Padre guardiano di Marko Mimica, basso pieno, cavernoso e compassato, pur senza disporre di un volume esagerato, cui fa da contraltare il bilioso e fumantino Fra' Melitone di Marco Filippo Romano, più che basso buffo, basso burbero, dalla voce squillante, rotonda e vibrante. Voce debole e poco proiettata, invece per il Mastro Trabuco di Marcello Nardis, il meno valente ma non per questo il meno simpatico, tenore caratterista. Da segnalare che tutto il cast debuttava nei ruoli della Forza.

Istruito da Corrado Casati, prende parte alla recita il Coro del Teatro Municipale di Piacenza. Buona prestazione e adeguata compattezza delle varie sezioni. La Vergine degli Angeli, banco di prova per il coro in quest'opera, viene condotto con la dovuta precisione e con un sentimento di raccolto intimismo.

Ininfluente l'apparatus scenico-registico. Emanuele Sinisi propone scenografie scarne, poco disposte a farsi plastico ingrediente visivo. Elementi fissi sono un lungo tavolo in finto marmo, che diventa di volta in volta l'arredo di un palazzo nobiliare, il tavolo dell'osteria, financo una barella e un tavolo operatorio (scena del Chirurgo da campo); e un'enorme cornice grigia montata su carrelli, giustificata, secondo il regista Italo Nunziata, dalla frase di Hag Hammarskjöld: «Non ci è data di scegliere la cornice del nostro destino, ma ciò che vi mettiamo dentro è nostro» – pensiero scontato e banale, pur derivando da un Nobel per la pace, ma decisamente troppo poco per potervi costruire sopra un'intera regia e soprattutto poco inerente al contesto – e sì che l'opera prevede molti luoghi e molto diversi tra loro: l'interno del palazzo dei Calatrava, un'osteria, un campo di battaglia, un monastero, un eremo… Qualche elemento di varietà in più non sarebbe guastato. A tavolo, alla cornice e a pochi oggetti volti a imitare la quotidianità (calderone, ciotole, mestolo, ecc.), si aggiungono i dipinti di Hanno Palosuo, raffigurazioni di vescovi e Cristi vagamente secentesco-manieriste, utilizzate soprattutto nelle scene di ambientazione religiosa, che poco aggiungono alla suggestione pressoché nulla di un palcoscenico altrimenti quasi desolatamente vuoto.

Christian Speranza

1/2/2019

La foto del servizio è di Cravedi.