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Madrid

La regina ragno

Roberto Devereux ha avuto proprio qui due stagioni fa un'esecuzione in forma di concerto con la Gruberova; davvero strano se si pensa che a programmarla teoricamente è stato un ‘nemico' non solo del verismo ma di altri momenti della lirica italiana quale Gérard Mortier.

L'allestimento è stato già visto in alcune sale, prima di tutto a Cardiff per la Welsh National Opera, e viene firmato da Alessandro Talevi, che si presenta con questo titolo al Teatro Real. Debutto davvero poco interessante e poco riuscito. Scene e luci quasi sempre cupe, vestiti – tranne quelli della regina – brutti, in particolare per le signore, di epoca non identificabile, ‘moderna' o ‘contemporanea', e apparentemente in uno stato autoritario dove la donna regale fa dei gesti per intimorire i sudditi, appunto come un ragno che si presenta non solo sulla copertina del programma, ma anche nella forma che prende il trono dal quale alla fine del secondo atto Elisabetta minaccia e maledice Roberto… Al solo proposito di non lasciare dei dubbi, nell'atto primo c'è un televisore dove si vede detto ragno immobile finchè si presenta la regina che, iniziando l'aria di sortita, offre in pasto un topolino che le passa Sara con grande cura… Dopo di che, fine del ragno.

Musicalmente le cose erano sensibilmente superiori. Non è facile dare con una compagnia questo titolo, figuriamoci due. Ma complessivamente è andata bene; secondo i gusti, benone o benino.

Bruno Campanella e Andriy Yurkevich si alternavano sul podio. Il primo di lunga esperienza e con tempi più lenti, più una sbavatura occasionale all'inizio dell'ultimo quadro dell'atto primo, il secondo molto vivace e molto partecipe. Orchestra e coro del Teatro, istruito da Andrés Máspero, molto in gamba in entrambi i casi. I due comprimari principali, a posto: erano Juan Antonio Sanabria (Cecil) e il giovane basso Andrea Mastroni (Raleigh) dal timbro davvero affascinante. Andrebbe ascoltato in parti più rilevanti per farsene un'idea adeguata.

Nel primo cast brillavano Mariella Devia e Gregory Kunde, benché nessuno dei due abbiano lo strumento più consono alle rispettive parti. La signora Devia è un grande soprano belcantista, di una musicalità notevole e una scienza del belcanto mozzafiato, ma resta un soprano liricoleggero benché oggi il colore sia più scuro ma il centro, e soprattutto i gravi, non ci sono. Va subito detto che mai una volta ha cercato di forzare e ha fatto rientrare il tutto nell'arco delle sue enormi possibilità offrendoci un ritratto parecchio completo del difficile ruolo. Peccato che il regista l'abbia messo – sul suo ragno – per la fine dell'atto secondo parecchio indietro quando proprio c'era bisogno del contrario. Il tenore è un miracolo come da tempo non si sentiva e vedeva, ma se può benissimo ancora tenere le parti di baritenore rossiniano e di spinto verdiano, per il più mite ed innamorato Roberto il volume è perfino troppo, il fraseggio troppo incisivo, il colore non ideale; la scena della prigione era però un vero tour de forcé con una cabaletta memorabile per le variazioni.

Angel Odena ha una bella voce, grande e di notevole estensione. Ma il duca non è un personaggio verista e non guadagna a venire cantato a squarciagola. Silvia Tro Santafé (Sara) ha dei gravi ingolati, degli acutí tesi e delle mezzevoci metalliche e biancastre.

Nel secondo cast, complessivamente più equilibrato, bisogna citare la prova meravigliosa su ogni piano di Veronica Simeoni, straordinaria Sara, abile belcantista, notevole interprete, bella voce. Al suo fianco Ismael Jordi ci offre il suo Donizetti più soddisfacente dopo il suo ‘Gennaro' nella Borgia di qualche anno fa a Liegi: bel timbro, canto flessibile, figura ideale, sempre alla ricerca delle mezzevoci ideali, quasi sempre riuscite, e con solo qualche acuto (quel che chiude la cabaletta soprattutto) tra il corto e il difficile. Alessandro Luongo, arrivato ‘in extremis' (il Duca doveva essere in origine Kwicien, che però si diede malato non appena iniziate le prove a quanto si dice – non c'è stata, ch'io sappia, una vera e propria spiegazione del Teatro), ha cantato solo una recita – quella che qui si recensisce, del 3 ottobre – tra i comprensibili nervi e la ancor più comprensibile cautela. Iniziava molto bene ma già dalla cabaletta si rilevava che il canto diventava poco incisivo, l'emissione restava ‘indietro' anche se tutto sommato la prestazione era interessante nel senso che dimostrava di avere un'idea corretta della parte. Magari quando la canterà prossimamente a Bilbao (che però ha un palcoscenico enorme) l'avrà più in gola e si sentirà più sicuro. Ho lasciato per finire il soprano Maria Pia Piscitelli perchè reputo ingiusto che non faccia la carriera che merita sia per i buoni mezzi che per la buona tecnica e il senso dello stile, oltre a darsi molto da fare per l'interpretazione: questa Elisabetta è una parte impervia che la signora risolve in maniera più che corretta e soddisfacente. Magari il timbro non è memorabile nè ‘personale' (ma ‘personale' può significare anche ‘brutto') bensí omogeneo e gradevole: in quanti teatri la si vorrebbe non per un secondo ma per un primo cast, e non solo in una parte così difficile e tutto sommato poco frequentata. La risposta del pubblico era molto positiva con delle ovazioni per Devia e Kunde alla fine delle loro grande arie finali e in fine di entrambe recite per tutti.

Jorge Binaghi

11/10/2015

Le foto del servizio sono di Javier del Real.