RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

Speriamo di rivederci tutti, un giorno,

in un mondo migliore...

“Ti auguro una buona estate. E che ti porti dei buoni soggetti d'opera per me. Mi piacerebbe tanto avere una satira politica in tardo stile greco. I governi d'oggigiorno non chiedono altro che d'essere musicati e messi in ridicolo”.

Also spräch … Richard Strauss. Era appena il 1919 quando il compositore scriveva al suo amico e sodale di sempre, il poeta drammatico Hugo von Hoffmansthal che, tra l'altro, di lì a un anno sarebbe diventato, con lui e il regista Max Reinhardt, anche il padre fondatore del Festival di Salisburgo.

Ciò a cui alludeva l'autore di Rosenkalier – molto in anticipo giacché la satira “lucianesca” che reclamava al drammaturgo avrebbe conosciuto la luce e la scena solo nel 1944 – era Die Liebe der Danae, opera di esecuzione quanto mai rara e a cui persino il Festspiele, a cui il lavoro era stato destinato in esclusiva sin dall'inizio, concede cittadinanza quest'anno dopo appena tre versioni storiche. La prima fu nel 1944 ma si trattò, in buona sostanza, di una specie di prova generale poiché la “prima”, prevista per il ferragosto dello stesso anno, fu subitamente bloccata da Goebbels che, dichiarando “guerra totale” dopo l'attentato a Hitler, decretò anche la chiusura dei teatri.

Ne seguì un'altra, nel 1952, a tre anni dalla morte di Strauss che aveva impedito a Krauss di eseguirla prima della fine della Seconda Guerra. Nel 2002 ha avuto luogo l'ultima edizione, diretta da Fabio Luisi e con la regia dell'eccellente, immaginifico Gunter Krämer.

Che Danae o il matrimonio di convenienza – come recitava il titolo dell'abbozzo che Hoffmansthal mandò a Strauss nel 1921 – suggellasse l'unione tra la musica tedesca e l'anima greca è quanto meno opinabile. Ancora più opinabile ci sembra l'ipotesi che si tratti addirittura di “un'opera tedesca di belcanto alla ricerca dell'anima greca” come vorrebbe il musicologo Ernst Krause. Più attendibile, forse, è il fatto che Danae – che sentiamo musicalmente e vagamente “striata” da elementi di Rosenkavalier da un canto e Capriccio, dall'altro – abbia una fortissima responsabilità storico-emotiva in quanto testamento spirituale di Richard Strauss. “Speriamo di rivederci tutti, un giorno, in un mondo migliore”, aveva detto il compositore ai professori d'orchestra, dal golfo mistico dove aveva voluto scendere personalmente per ascoltare, commosso, l'ipertrofico Intermezzo in do maggiore dell'ultimo atto che, di tutta l'opera, resta, a nostro avviso, si badi, la vera se non l'unica gemma, preziosissima e imperdibile e a cui la concertazione e direzione misuratissima e corposa di Franz Welser-Möst, quest'anno, rende assolutamente giustizia.

Quella frase e quella prima replica furono, per Strauss, una sorta di malinconica prova generale del suo congedo dalla vita. Die Liebe der Danae è scritta in re minore, la tonalità della morte, la stessa in cui esordiva Elektra (e quel terribile “Agamemnon!” in apertura) solo che qui l'incipit con i creditori – nei confronti di Polluce, padre di Danae, è lui la causa della rovina del regno ecco perché la figliola è alla ricerca di un Vernunftheirat, matrimonio di convenienza, che troverà con Mida – ebbene, quell'apertura è la quintessenza del grottesco.

Non fu scritta da Hoffmansthal, però, la storia in cui Mida – che un tempo era solo un poveraccio con in dote un asinello (ed un vero asinello in scena vuole Alvis Hermanis, solo che l'animale spesso e volentieri si rifiuta di seguire chi lo conduce fuori scena provocando l'ilarità in platea) vien fatto ricco da Giove che però, fallocratico come suo solito, pretende in cambio le sue sembianze per poter dare libero sfogo alla libido, olimpica quella pure, senza che questa provochi la gelosia di Giunone. Dopo l'improvvisa morte di Hoffmansthal, infatti, Strauss si rivolse, in prima istanza, ad un suo fan al secolo Stefan Zweig, scrittore di vaglio ma ebreo dunque persona non grata al Terzo Reich. Sicché la scelta cadde su Joseph Gregor.

Sui sogni d'oro nell'accezione più vera del termine – e a tal proposito sono deliziose le dieci piccole auree “gocce” danzanti secondo la coreografia delicata e sapiente di Alla Sigalova, “danzattrici” che si muovono come trapezi umani a metà tra Trilly di Peter Pan e l'uomo vitruviano di Leonardo – si apre Danae in cui il ruolo del titolo è della bulgara Krassimira Stoyanova, assai bene in parte. Ma più vocalmente che fisicamente. Intendiamoci, a sessant'anni Mariella Devia è ancora una Violetta da far tremare i polsi e sussultare qualsiasi Alfredo che abbia ancora il ben dell'intelletto. La Stoyanova, per quanto avvenente e incisiva, ha un che di agée che porta un tantino fuoristrada. Al suo fianco, ben figurava Tomasz Konieczny (Jupiter), non altrettanto convincente il Midas di Gerhard Siegel.

Non ci sono pepli né sandali né colonne doriche. E in questa Grecia “gemellata” con l'Austria, l'Olimpo è festosa e fastosa turquerie, turbanti come mongolfiere in una tempesta di rossi, arancioni, gialli ton sur ton. Così dettava l'Art Nouveau che ruotava intorno al “mondo migliore” auspicato da Strauss e così ha voluto Alvis Hermanis, proteiforme regista lettone ormai di casa al Festspiele - ha cominciato con la straordinaria ironia sugli anni '60 di “The sound of silence” ed ha continuato con un conclamato e ripreso “Trovatore” con Placido Domingo “impressionato” dalla sindrome di Stendhal. Hermanis veste l'opera di un'utopia coloratissima grazie ai costumi ispirati al pittore franco-russo Bakst, lo stesso dei Ballets Russes di Diaghilev. Poi, quasi fosse in controcanto a certe Aide sovrappopolate da proboscidi, a parte l'asinello riluttante, ecco un finto pachiderma, candido ma verosimile perché enorme: fa il suo ingresso esso pure bardato d'oro come il sovrano, che è “Sonne” e “Gluck” (sole e felicità).

Tuttavia, chissà perché, dinanzi al cantato, deprecato “Oro senza vita” di Mida, paradigma di un potere pietrificato e inamovibile, infinito e infinitamente vacuo, ci è venuto in mente L'imperatore di Atlantide, piccolo immenso capolavoro di Viktor Ullmann che lo scrisse nel “lager modello” di Therezìn prima d'essere deportato ad Auschwitz. Nella scrittura musicale del compositore praghese in cui Schönberg aveva salutato il genio del secolo, era tragicamente chiaro chi si celasse dietro al Kaiser.

Che Richard Strauss avesse avuto un ravvedimento “finale” assai più salvifico delle “soluzioni” di colui che il colpo di Stato del colonnello Von Stauffenberg non era (purtroppo) riuscito ad eliminare?

Carmelita Celi

7/8/2016