RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

Un Mozart in minore per Teodor Currentzis

(e molto, molto altro…)

Ci sono concerti che non sono solo concerti. Sono esperienze spirituali, catartiche, multisensoriali, oltre che occasioni di arricchimento (ma quello, poco o tanto, lo sono sempre). Il concerto di sabato 16 marzo 2024 all'auditorium Giovanni Agnelli di Torino, nell'ambito della rassegna di Lingottomusica, è stato uno di quelli. Sulla carta figurava un programma scarno ma denso, il Concerto per pianoforte e orchestra nº24 in do minore KV 491 e il Requiem per soli, coro e orchestra in re minore KV 626 di Wolfgang Amadeus Mozart. E fin qui, nulla di esageratamente originale, uno dei Concerti più eseguiti del Salisburghese, risalente al decennio di Vienna (è del 1786), pensato come consuetudine per essere eseguito dal compositore stesso in una qualche “accademia”, così all'epoca si chiamavano i concerti, e l'ultimo capolavoro nato su commissione segreta del conte Walsegg per commemorare la defunta moglie facendosi passare per l'autore delle musiche (la corte lo sapeva, non era la prima volta, ma faceva finta di niente e mostrava di stupirsi per compiacerlo). Sull'aura leggendaria che presto venne ad avvolgerlo, sul fatto che venne lasciato incompiuto e completato segretamente dall'allievo Franz Xavier Süßmayr mentre Mozart veniva spacciato ancora per vivo dalla moglie per non perdere l'anticipo ricevuto, sul funerale fatto in fretta e furia col corpo gettato in una fossa comune e sullo zampino che ci avrebbe messo Salieri, si è già detto e scritto tutto il lecito e l'illecito possibile. Non staremo qui a sunteggiarlo.

Sulla carta, dicevo, nulla di troppo ricercato, a parte la scelta di accostare due pagine in minore, ambito molto poco frequentato da Mozart rispetto al maggiore, con un ventaglio al quale manca la stecca del sol per completare la triade delle tonalità minori da lui più sfruttate (incursioni nel la minore, come nel Rondò KV 511 e soprattutto nella Sonata KV 310, e nel si minore, come nell'Adagio KV 540 sono rarità). Le raffinatezze partono dal programma di sala, con in copertina la Vanitas di Simon Renard de Saint-André (1613-1677) e continuano, anzi si concretano, nella scelta degli interpreti: Teodor Currentzis sul podio a dirigere la “sua” orchestra e il “suo” coro (suoi perché li ha fondati lui nel 2004) musicAeterna, sulla cui qualità si dirà più avanti. Al pianoforte, o meglio al fortepiano, Olga Pashchenko. L'auditorium gremito, con personalità di spicco dell' entourage musicale torinese, non è stato solo merito del tamtam mediatico attorno a questo mito vivente della direzione, a più riprese detto enfant terrible per le sue interpretazioni al calor bianco (quando Gastón Fournier-Facio introdusse l'ascolto della Sesta Sinfonia di Mahler, nel novembre scorso all'Auditorium di Milano, scelse proprio Currentzis e la musicAeterna per sottolinearne la tragicità), ma anche per la chiara e riconosciuta qualità delle sue esecuzioni, tanto più messe a sevizio stavolta di due autentici capolavori. La curiosità e l'interesse erano molti: le aspettative non sono state deluse. Di più: sono state superate da sorprese inattese…

All'entrata in sala, una voce (umana, ma non quella di Poulenc; mi si permetta una boutade ogni tanto…) annuncia che il maestro Currentzis farà precedere il Requiem , nella seconda parte della serata, dalla Musica funebre massonica, sempre di Mozart, e da un canto gregoriano. Se ne prende atto, già contentissimi che alle due pagine in programma si aggiunga quella piccola perla che è la Mauerische Trauermusik KV 1 477 / KV 6 479a, anch'essa in do minore, scritta nel 1785 per la morte di due fratelli massoni, il duca Giorgio Augusto di Meclemburgo-Strelitz e il conte Franz Esterházy von Galantha. Ma già colpisce un'altra particolarità: il fortepiano, dall'esterno simile a un clavicembalo, è rivolto con la coda verso la platea, con Olga che presumibilmente guarderà il pubblico (così sarà, in effetti); i leggii disposti a semicerchio attorno allo strumento fanno pensare a un'esecuzione filologica non solo nella scelta degli strumenti storici – corni naturali e trombe barocche, flauti ancora in legno, fagotti più magri –, ma anche nella disposizione degli stessi, quando ancora il solista era anche, come s'è detto, l'autore e il direttore (sarà Liszt a girare il pianoforte, per i suoi concerti- show). Solo che qui è al contrario, la solista guarda il direttore perché non è lei a dirigere.

Mezze luci, applauso di rito e il Concerto può iniziare. Ma non inizia un concerto: inizia un'esperienza mistica. La raccolta compagine, con le caldaie dei timpani e la coppia di trombe sulla sinistra (e i trombettisti in piedi), dà vita a una fantasmagoria di chiaroscuri che è impossibile rendere a parole. Si tenterà di farlo, sottolineando il frequente ricorso a un'escursione dinamica accentuata, piano-crescENDO-DIMINuendo-piano che fin dall'inizio, e per tutta la durata del concerto, fanno l'effetto di folate di vento, di un suono pneumatico, vivo, respirante. Rallentando impercettibilmente il tempo, la cupezza di quell'ondivaga frase d'apertura, che gioca tutta la sua ambiguità sull'evitamento della dominante nella triade (do-mi bemolle- la bemolle, anziché il perentorio do-mi bemolle- sol con cui Beethoven aprirà il suo Terzo Concerto), assume anche più enigmaticità e insieme più gravità. Il suono ottenuto dall'orchestra, poi, è di una pulizia stupefacente; non serve seguirlo con la partitura: per chi ci capisce giusto un po', nemmeno tanto, come chi scrive, essa è squadernata nell'aria, si segue con gli occhi della mente, tanta la trasparenza delle varie voci.

La sonorità del fortepiano, così velata, impalpabile, aggiunge un che di spettrale all'esecuzione. Suggerisce quella che Hrabal definirebbe una solitudine troppo rumorosa, una lotta impari contro la massa orchestrale, e del pari una compenetrazione inusitata, col pigolio delle quartine di semicrome che vorticano “dentro” gli archi, in un cum-certare anche qui, ancora una volta, filologico, o meglio, etimologico. D'altro canto, è probabilmente così che sarebbe risultato il concerto ai tempi di Mozart, anzi, forse anche con dinamiche più smorzate, dato che qui, sotto lo strumento, sono stati messi degli amplificatori collegati a un microfono sopra la cassa armonica: un minimo di aiuto per permettere al suono ialino del fortepiano di risuonare per gli svariati metri cubi della sala di Renzo Piano, di certo molto ma molto più grande di qualunque ambiente in cui abbia suonato Mozart. Ma è proprio grazie a questo suono così esile che si è costretti a concentrarsi di più sull'ascolto; e il contrasto di quando arrivano le sferzate dei timpani è lancinante. E niente, si deve seguire così, questo Mozart secondo Currentzis, con un ascolto devoto, a occhi chiusi (e sugli occhi chiusi torneremo), con un raccoglimento quasi sacrale. E nonostante si sappia dove arriveranno i timpani, quando arrivano si ha un tuffo al cuore lo stesso. Ma al termine del primo movimento si apprezza nell'insieme l'equilibrio della forma, l'arco espressivo che in altre esecuzioni sfugge, pur con qualche concessione, da un lato alla massa orchestrale, forse ancora un po' ridondante sia per l'epoca di Mozart, sia per limitate possibilità acustiche dello strumento, dall'altro all'inevitabilità, lo ripeto, del grande spazio entro cui si è svolta l'esecuzione.

Il Larghetto che segue ha in sé l'abbandono di una cantabilità già schubertiana, nell'attacco della solista, e un'amabilità nell'apertura ariosa degli archi che fa comprendere da dove Beethoven ha tratto il clima delle sue pagine più distese. L'innocenza di una dimensione intimistica si sbozzola lentamente, e quale balsamo spirituale non scende, dopo le cupezze dell'Allegro. Ma la soavità è presta a chiudersi nelle valve del Larghetto, che già incalza l'Allegretto, e l'atmosfera torna a farsi pesante. Sovente si parla di “leggerezza” mozartiana, di apollineità; e per carità, c'è anche questo, nel Mozart di Currentzis, ma qui quella leggerezza diventa fosca; contrariamente ad altre letture, è un'ossimorica leggerezza pesante, tenuta sempre in equilibrio sul filo della tragicità “a strappacuore” che però non raggiunge mai, non facendosi mai sguaiata. Direi anche in punta di bacchetta, ma Currentzis non usa bacchette, e la sua gestualità coinvolge tutto il corpo, fino a ritmare il tempo coi piedi. Che possa sembrare o no ortodosso, non importa, non si è qui a giudicarlo per le sue abilità tersicoree: ad occhi chiusi si apprezza ciò per cui è nato: proporre il “suo” modo di dirigere, riconoscibile come in pittura la pennellata di Van Gogh. A poco serve la parentesi in maggiore, verso la fine, che potrebbe indicare una svolta verso la positività. Cadenza conclusiva, in cui non sono estranee allusioni al Kyrie della Messa KV 427, e il Concerto si chiude nel do minore di partenza, stavolta asserito e non più solo alluso, coi due secchi accordi conclusivi.

La prassi vorrebbe che a questo punto, prima dell'intervallo, ci fosse un fuori programma della solista. Ma abbiamo già capito che questo non è un concerto come gli altri. Il fuori programma c'è. Ma non si tratta di un breve brano solistico. È direttamente un altro concerto per fortepiano e orchestra: il Concerto per clavicembalo e archi in re maggiore di Dmitrij Bortnjanskij.

Applauso e intervallo? Niente affatto. Le sorprese non sono ancora finite. Dopo Bortnjanskij, Paschchenko torna sul palco per parlare, sempre in un italiano invidiabile, dello strumento che ha suonato. Si tratta di un Paul McNulty, estensione FF-g3, accordato a 430 Hz, e non uno a caso. L'artigiano texano, specializzato nel ricreare strumenti d'epoca per una migliore resa della musica antica, ha riprodotto in questo caso l'Anton Walter originale di Mozart, attualmente nella casa-museo a Salisburgo. Completamente in legno, è già dotato di due pedali, tra cui uno smorzatore: pochi anni e avremmo avuto le meccaniche degli Érard, dei Pleyel. E perché quindi non valorizzarne il suono con un altro brano, stavolta davvero solistico? Eccoci quindi col Rondò all'ingharese quasi un Capriccio in sol maggiore Op.129 di Ludwig van Beethoven, forse da Anton Schindler ribattezzato «La collera per il soldino perduto». La scelta non è peregrina, perché il brano, pur con un numero d'opus alto, superiore a quello della Nona Sinfonia, per intenderci, è stato scritto nel 1794-95, anche se pubblicato postumo nel 1828. Si tratta di uno di quei brani virtuosistici, chissà, magari una trascrizione di un'improvvisazione che lo resero celebre nella Vienna di fine Settecento. La sonorità è perciò attinente a ciò che avremmo potuto ascoltare all'epoca, e il virtuosismo trascinante con cui Olga lo interpreta ha qualcosa del brio pazzerello del venticinquenne che l'ha composto (e che attendeva negli stessi anni alla stesura del Primo e del Secondo Concerto), con souplesse e speditezza, non mancando di giocare con lo sguardo con gli altri orchestrali dietro di sé («Scusate se è lungo», perché dura svariati minuti). Altri Brava!, altri applausi, e finalmente l'intervallo.

Al rientro in sala le sorprese continuano. L'allargamento dell'orchestra comprende quattro contrabbassi in luogo dei due della prima parte, più i tromboni, i corni di bassetto e ovviamente coro e solisti. Si abbassano le luci ma… si abbassano completamente. La sala rimane al buio, e in quel buio ecco levarsi Requiem æternam, canto gregoriano maschile che da solo vale tutto il concerto. Se l'orchestra ha sfoderato una pulizia e una precisione di suono pazzeschi, ora è il momento del coro, pulitissimo e amalgamato, letteralmente trasparente. Qui è giocoforza ascoltare ad occhi chiusi, anche perché a tenerli aperti non si ricava nulla, se non distrazioni. A parte che le distrazioni sono arrivate comunque, con un sanatorio in sala… ma concentrandosi, si è capito che il viaggio spirituale era ricominciato, e stavolta verso più sublimi altezze.

È un concerto che dà tanto, questo di Currentzis, ma è un concerto che chiede tanto. All'ascoltatore. Prima col fortepiano, ora col coro immerso nell'oscurità. Ma è solo così, sembra dire coi fatti, che si apprezza veramente con le orecchie e non con altro. Con le orecchie, a tu per tu con la propria sensibilità.

Il viaggio prosegue; le luci si alzano quel tanto che basta agli orchestrali per leggere lo spartito; il resto della sala resta in ombra, come a teatro per un'opera, per intenderci, poco di più. E parte la Trauermusik. Che differenza dal Concerto! Vi è qui l'espressione del dolore, raccolto, intimo all'inizio, sussurrato negli accordi iniziali, che deflagra nei toni cupi del controfagotto e nelle strappate degli archi nei drammatici passaggi centrali. Dinamiche anche qui estremizzate. Ancora una volta ci si stupisce dell'altissima prestazione di questa orchestra, coesa sì da sembrare un unico organismo; ma più ancora stupisce che alle note di Mozart venga sovrapposto un canto in tedesco, estraneo alla partitura ma che si attaglia perfettamente, risultando come il cantus firmus dei corali bachiani. E un che di bachiano, di ieratico c'è nella conduzione di questo coro sovrapposto.

L'inizio del Requiem segue a ruota, senza pause per superflui applausi. E qui ci si inoltra nel regno della pura interpretazione. Currentzis fin da subito chiede all'ascoltatore di seguirlo, un patto cui terrà fede fino alla fine di un'esecuzione molto rapida, addirittura quasi sbrigativa. Poe sosteneva che una poesia deve durare al massimo sui cento versi, non di più, altrimenti l'attenzione del lettore cala; forse è in quest'ottica, verso la fine di un concerto che si è espanso ben oltre il concordato, che Currentzis stringa i tempi. E fra tempi stringati, dinamiche, come ripeto, fortemente accentuate, caravaggeschi chiaroscuri musicali, si ha un po' l'idea di un protagonismo direttoriale che soverchia il puro servizio del brano, come quelle regie operistiche che scavalcano l'opera. Ma se allarghiamo lo sguardo, ci si può rendere conto che in questo caso Currentzis, con le sue scelte di programma, di luci e disposizioni, non si fa solo direttore, ma anche regista della serata; e nel pacchetto è compreso tutto. Per questo parlavo di esperienza multisensoriale, di un concerto che non è solo un concerto.

Ma non è solo questione di tempi, dell'Adagio dell'Introitus fatto come un Andante con moto e quasi tutto di conseguenza; lettura personalissima, quasi distorta, se ne può e se ne deve discutere, ma lettura in grado oltremodo di esaltare la scrittura mozartiana, in un profluvio di dettagli evidenziati come sotto una lente d'ingrandimento, una dissezione in grado di far valere il particolare come l'insieme. Con la finezza di quella manciata di battute aggiunte in coda al Lacrymosa lasciate da Mozart, una fuga sull'Amen poi scartata da Süßmayr, forse perché troppo frammentaria. Come a voler includere tutto, ma tutto tutto quel che ha scritto Mozart. E a proposito di fughe, da ammirare l'incastro con cui viene eseguita quella sul Kyrie, di ascendenza più che mai barocca (almeno il soggetto della Fuga BWV 889/2 di Bach e il coro And with His stripes dal Messiah di Händel condividono lo stesso profilo) e da trattare perciò in modo più che dotto. E anche quelle, meno elaborate ma pur sempre fughe, composte da Süßmayr, sull'Hosanna e sul Quam olim, sulle quali si tende spesso a stendere un velo di bonaria condiscendenza. E qui Currentzis svela che la condiscendenza non va slegata dal rispetto e dalla valorizzazione anche di queste note.

Del coro s'è già detto. Si aggiunga qualcosa sui solisti, tutti, a parte il basso Alexey Tikhomirov, parte del coro musicAeterna. Se il citato Tikhomirov e il tenore Egor Semenkov disimpegnano appropriatamente la parte, si accusano un po' troppo “punture” nel controtenore Andrey Nemzer, in luogo del mezzosoprano, che “bucano” nel quartetto vocale del Recordare, e si inquadra poco il soprano Elizaveta Sveshnikova, dalla voce pur setosa e che si concede qualche estro improvvisativo alla barocca, ma che sembra avere le caratteristiche di una voce bianca non ancora maturata.

La conclusione non poteva essere che fragorosi e prolungati applausi. Epperò anche qui la sorpresa. Le ultime note echeggiano ancora, che già i pestoni dei battimani si accalcano, senza far godere quell'attimo di sospensione e di silenzio a fine concerto, quel magico dissolversi delle ultime note che ricadono nella memoria di chi ci ha creduto, quell'istante in cui si sente di esser stati purificati e pacificati. Istante rovinato da applausi precipitosi, subito congelati dagli archetti su e dal direttore immobile per un minuto buono. Solo al termine di quel minuto è venuto giù l'auditorium. Per davvero.

Christian Speranza

19/3/2024

Le foto del servizio sono di Mattia Gaido-Courtesy of Lingotto Musica.