Gran finale mozartiano La trilogia Mozart-Da Ponte al Regio di Torino
Don Giovanni
Seconda opera del trittico che chiude la stagione 2017-18 del Teatro Regio di Torino, Don Giovanni, ossia il dissoluto punito KV 527, su libretto di Lorenzo Da Ponte (Praga, Nostitz Theater, 29/10/1787), è un'opera che ha consegnato all'immaginario romantico un Mozart in contatto con entità soprannaturali, un'opera imbevuta di demoniaco, che inizia con un omicidio e finisce con la dannazione del protagonista, «trangugiato» all'inferno. Un'opera in realtà estremamente psicologica che, in barba alle aristoteliche unità di tempo, luogo e azione, dilata il tempo (il Commendatore viene ucciso quando era «alquanto avanzata la notte» e Don Giovanni parla con la sua statua la notte appresso) per mostrare un affresco dell'animo umano in suoi diversi aspetti. È, questo taglio psicologico dei libretti di Da Ponte, e soprattutto della musica di Mozart, che dà loro forma compiuta, una caratteristica che investe trasversalmente le tre opere frutto della loro collaborazione. La musica riesce a evidenziare aspetti dei personaggi che le sole parole non sono sufficienti a mettere in luce. Tirso de Molina, il drammaturgo che nel 1630 inventò Don Giovanni Tenorio nella commedia El burlador de Sevilla, ha di fatto inventato una figura che come Faust, è in grado di dar voce, a seconda degli autori che lo fanno parlare, a diverse pulsioni umane. Che cosa spinge Don Giovanni a collezionare le donne come fossero figurine? Erotomania, voglia di sfidare se stesso, voglia di dimostrare un certo machismo da maschio alfa (che si intreccia coi dati dell'etologia di certi animali, per cui più vasto è l'harem con cui il maschio si accoppia, più grande sarà la diffusione del suo patrimonio genetico), rifiuto delle regole sociali? Tutto può essere; senza contare l'interesse che il “fenomeno Don Giovanni” ha suscitato in psicanalisi, cominciando da Freud, e in filosofia, nel saggio di Kierkegaard sulla vita estetica. Poi è venuto chi l'ha riscattato: José Saramago, nel suo Don Giovanni, ossia il dissoluto assolto, ci offre una visione che, nel 2005, ribalta la statica visione di un Don Giovanni peccatore e peccaminoso, e dei personaggi che orbitano attorno a lui come vittime dei suoi raggiri e delle sue angherie. Tant'è che, grazie ad Azio Corghi, questa visione in controtendenza ha avuto anche una sua veste musicale (per non parlare di tutti coloro che, Richard Strauss in testa, hanno tratto dal personaggio brani di squisita fattura strumentale). E le riflessioni sicuramente continueranno!
Si è assistito alla prova generale del Don Giovanni, in data 21/06/2018, con esito più che soddisfacente. Impeccabile la direzione di Daniele Rustioni, che produce nell'Orchestra del Teatro Regio, ben ricettiva alle indicazioni, un suono asciutto, senza sbavature, e in questo molto barocco e “tedesco”. Vi è come in tante cose un imprinting che nasce all'ascolto delle prime note: e percepire nettamente i primi tre accordi dell' Ouverture belli staccati e netti, quando spesso li si ascolta quasi fusi assieme, ha fatto sì che questo imprinting gettasse una luce positiva su tutto il resto dell'esecuzione, peraltro attentissima alle sfumature, alle raffinatezze della strumentazione, dove, per esempio i fiati nell'”aria del catalogo” o il violoncello obbligato in Batti, batti, o bel Masetto vengono rilevati adeguatamente. Evidenti poi il pieno controllo del volume orchestrale, degli ensemble oltre alla calibrazione voci/strumenti pressoché sempre indovinata.
Il cast si compone di voci di livello paragonabile e sopra la media. Don Giovanni e Leporello sono Carlos Álvarez e Mirco Palazzi, entrambi pienamente nel ruolo di scaltriti mascalzoni, con voci robuste ed espressive. Fabio Maria Capitanucci interpreta Masetto, al quale, a voler essere pignoli, si può imputare una certa approssimazione nel mettere a fuoco la parte, con una pronuncia non sempre scandita e arcate melodiche non sempre nette; la voce c'è, e ben intonata, le qualità di attore ci sono, e ben riesce a impersonare l'impotente contadinotto che quasi si vede soffiare la moglie il giorno delle nozze: ma un lavoro di fino su certe sfumature vocali potrebbe migliorare la qualità della sua esibizione, già peraltro di buon livello.
Don Ottavio, sul quale pesa ingiustamente lo stigma di cavalier servente di Donna Anna, tutto sospiroso cicisbeo ancien régime, è Juan Francisco Gatell, tenore di grazia che sa coniugare delicatezza espressiva, in Dalla sua pace, a una densa caratterizzazione psicologica nella nel duetto iniziale con Donna Anna e nella “scena delle tre maschere”, dimostrando di avere impennate di voce imprevedibili. Voce profonda e drammatica quella del Commendatore di Gianluca Buratto, grave e potente, impegnato in uno di quei ruoli, come quello della Regina della Notte, pochissimo presenti sulla scena ma in grado di mettere in moto l'opera stessa (tant'è che il sottotitolo della commedia originale è Il convitato di pietra, di cui si ricorderà Villiers de L'Isle-Adam per il suo Il convitato delle ultime feste ...).
Decisamente soddisfacenti le voci femminili, a partire da Maria Grazia Schiavo, ingaggiata come Susanna nelle Nozze di Figaro (la cui generale sarebbe stata venerdì 22 giugno, il giorno appresso a questa) e qui nei panni di Donna Anna al posto di Erika Grimaldi. A dispetto del dispaccio che quasi pregava il pubblico di scusarla per non aver potuto provare prima, si è dimostrata in grado di sostenere l'impervio ruolo affidatole, esibendosi senza esitazioni. Un Don Ottavio, son morta… Or sai chi l'onore superbo e carico di drammaticità, un Non mi dir, bell'idol mio a dir poco stupendo, tecnicamente e musicalmente, pieno d'amore e di sofferenza, e un'esibizione sempre partecipata e attenta, con una voce acuta e fredda, da gran dama offesa al di sopra degli altri, come si conviene a un'aristocratica Donna Anna, caratterizzano la performance di Maria Grazia Schiavo. Carmela Remigio ha dato vita a una Donna Elvira vulcanica, come ispirata dall'alto a voler salvare le vittime dal barbaro seduttore: la sua interpretazione di Ah, fuggi il traditor e Non ti fidar, o misera sono uno spettacolo di forza persuasiva.
Passando alla Zerlina di Rocío Ignacio, si potrebbe dire di avere a disposizione una Ferrari e averla usata come una Cinquecento. Fuor di metafora, il soprano sivigliano dispone di uno strumento vocale pieno, solido, raffinato da uno studio avvertibile nel controllo dei vibrati e nelle attente legature e portato ad un repertorio più melodrammatico, ma che qui, nel ruolo affidatole, non riesce ad esibire tutto il suo potenziale. Ed è un bene, perché uscirebbe dal personaggio. Quel che è chiamata a cantare lo canta attentamente e senza sforzi, sbozzando una Zerlina carica di vitalità ma anche di tenerezza, come in Vedrai, carino e in Batti, batti, o bel Masetto. Spesso si tende a fare di Zerlina un personaggio frivolo: qui, regia e voce contribuiscono a delineare una Zerlina davvero innamorata di Masetto e che rimane ingenuamente affascinata dalla carica erotica di Don Giovanni.
Parlando appunto di regia, quella presentata di Michele Placido ricalca fedelmente scansione e movenze sceniche, trasportando l'epoca in un Ottocento altoborghese ma convincente per l'apparato costumistico, eccezion fatta forse il paletot bianco di Don Giovanni, poco coerente ma, a onor del vero, d'effetto quando illuminato dalla “Luna” nella scena del cimitero, con un gioco di luci suggestive sulle bianche statue marmoree, e della dannazione finale, dove la statua, arrivando dal fondo del palcoscenico, permette al cantante, in piedi e ai piedi della statua, di cantare la sua parte senza oscurare la sua voce: come se dalla statua trasparisse l'immagine dell'ucciso venuto a chiedere vendetta. Qualche trivialità di troppo durante la festa in casa di Don Giovanni, nel finale dell'atto primo, con vari mimi in posa di fronte a un fotografo: ma è facile immaginare che in quella casa avvenisse ben di peggio!
Christian Speranza
2/7/2018
Le foto del servizio sono di Ramella&Giannese-Edoardo Piva.
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