RECENSIONI
-

_ HOMEPAGE_ | _CHI_SIAMO_ | _LIRICA_ | _PROSA_ | _RECENSIONI_| CONCERTI | BALLETTI_|_LINKS_| CONTATTI

direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

Simbolista e Stregone

A Tolosa la rivincita di Paul Dukas

Se Paul Dukas si fosse chiamato Claude Debussy, e viceversa, oggi forse sentiremmo parlare più di Ariane et Barbe-Bleue che di Pelléas et Mélisande. Non spingiamoci oltre con le congetture: con i “se” non si fa la storia della musica, tanto meno di quel suo pragmatico segmento che è il genere operistico. Tuttavia, guardando come il teatro musicale francese d'inizio Novecento ha per due volte sdoganato, a cinque anni di distanza (1902-1907), le ombre evanescenti e i trasognati simbolismi di Maurice Maeterlinck, vien da pensare che l'appeal di Ariane sia diverso, ma non da meno, rispetto a Mélisande: l'esigenza di una totale compenetrazione tra testo e suono imbriglia il drame lyrique di Debussy in una griglia di espressività tenue e allusiva, laddove nel wagnerismo impressionista di Dukas e del suo conte lyrique tutto appare meno rarefatto e più espanso, meno compresso e più disteso.

Insomma, da ridisegnare è almeno la mappa che vuole Dukas soltanto come il creatore di quell'Apprendista stregone immortalato da Topolino maghetto in erba, tra scope semoventi, in Fantasia di Walt Disney: anche se la sua insicurezza, che lo spinse a distruggere e a lasciare incompiuta più d'una partitura, è stata un buon passaporto per l'oblio. Nel caso di Ariane et Barbe-Bleue, poi, la molteplicità delle chiavi di lettura ha contribuito al luogo comune di una drammaturgia criptica e scostante, tale da lasciare l'opera fuori repertorio: cosa racconta, di fatto, questa storia cui Maeterlinck, parafrasando Beaumarchais (e, indirettamente, Rossini), imprime come sottotitolo La délivrance inutile? Un innesto tra favola e mito, dove l'orco pluriuxoricida di Perrault si trasforma nel Minotauro del labirinto districato da Arianna? Una metafora marxista, con la rivolta del proletariato contadino che sconfigge il padrone Barbablù? Uno studio parafreudiano – gli anni sono quelli dei Tre saggi sulla teoria sessuale – sul masochismo femminile e la sua voluttà di sottomissione (le mogli precedenti non sono state uccise ma imprigionate, e rifiutano la possibilità di fuga che Ariane offre loro)? Un'allegoria teologica, in cui il tema – di capitale importanza sotto il profilo timbrico, per Dukas – della luce che si fa largo tra le tenebre, ma lasciando solo potenziale la sua forza salvifica poiché il buio non sa comprenderla, discende dritto dritto dal Vangelo secondo Giovanni?

O ancora: una pionieristica (per l'epoca) raffigurazione della crisi del maschio, virile solo nella soppressione del femminino? Era questa la chiave ermeneutica del Barbablù cinematografico di Richard Burton, e sembra essere l'interpretazione più scoperta – tra le molte possibili – del regista Stefano Poda in questa nuova produzione di Ariane et Barbe-Bleue al Théâtre du Capitole di Tolosa. Resa lode al teatro francese per la riproposta di un titolo che fatica a essere amato pure in patria (e anche per aver costruito un percorso novecentesco sul mito di Arianna: poche settimane prima il Capitole aveva messo in scena Ariadne auf Naxos di Strauss), l'esecuzione ha abbinato, proprio come il testo di Maeterlinck, le luci alle ombre. Tra le prime si segnala un'orchestra idiomatica, perfettamente in grado di esprimere il substrato sinfonico-vocale, più che operistico, di questa partitura; un direttore – Pascal Rophé – forse un po' timido in certe estroversioni foniche del primo atto, ma puntuale nella ritmica e brillante negli impasti, elegante senza concessioni estetizzanti e accurato senza scantonare nell'algidità; una protagonista – Sophie Koch – più appiombata nella dimensione del limpido mezzosoprano (quale Ariane è nominalmente) che in quella del soprano drammatico (in cui il personaggio spesso si trasforma), ma sempre raffinata nel fraseggio e intensa nella declamazione, di squisita femminilità pure nei momenti più tesi. Accanto a lei, nei panni della nutrice, Janina Baechle incarna con efficacia l'archetipo della donna che ha visto a lungo il mondo e, tuttavia, ancora si ritrae inorridita dai suoi abissi: anche certi limiti naturali (uno strumento contraltile nutrito in basso e avaro al centro) entrano proficuamente in dialettica con la complessione vocale della Koch, tersa e scorrevole nel registro superiore ma meno privilegiata in zona medio-grave.

Tra le ombre dello spettacolo si possono collocare invece il protagonista maschile (Vincent Le Texier è baritono di mezzi contenuti e oggi forse declinanti, qui artificiosamente piegati verso sonorità truci e inchiostrate) e la messa in scena: il Poda scenografo – intrecci labirintici, fughe di scale, bassorilievi di corpi in accoppiamento o in posizione fetale – è comunque più cesellato, e anche più autenticamente visionario, del Poda regista, che non va molto al di là del frusto espediente dei “doppi” (delle danzatrici duplicano le spose di Barbablù), lasciando in scena il protagonista pure quando dovrebbe essere un'assenza, affastellando un'azione che sarebbe, invece, scarna e rettilinea. È un horror vacui penalizzante soprattutto per le mogli prigioniere, cui Dukas attribuisce specifico profilo drammatico-vocale una ad una: sul piano scenico qui appare tutto omogeneizzato, ma restano nella memoria almeno la severità concentrata, quasi cameristica, della Sélysette di Eva Zaïcik e certe rifrazioni vellutate della Ygraine di Marie-Laure Garnier. La parte di Alladine, la quinta moglie, non ha impegni canori e prevede un'attrice-mima: a Tolosa è stata festeggiatissima Dominique Sanda, cui Poda affida vari momenti cuciti su misura, a cominciare dalle prime battute orchestrali ad alzar di sipario. La sua bellezza diafana si è fatta oggi più brumosa, la sensualità pare stemperarsi nel dolore: comunque una prova scenica maiuscola.

Paolo Patrizi

14/4/2019

La foto del servizio è di Cosimo Mirco Magliocca.