RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 

 

I gioielli di famiglia

Tra cannoni e minuetti, ripresa autunnale nel segno di una pensosa leggerezza, al Teatro Massimo di Palermo, con uno storico allestimento de La Fille du régiment di Gaetano Donizetti. La scelta si è rivelata particolarmente felice, perché l'opéra-comique donizettiano incontra sempre i favori del pubblico: ben più dell' Elisir d'amore, atteso quasi unicamente per la romanza del tenore, La Fille è infatti un ininterrotto fluire di numeri godibilissimi, frutto di un'invenzione melodica di sorgiva, contagiosa genialità creativa. Di più: dalla versione originale francese a quella italiana, è un'opera che si può facilmente adattare ad un pubblico diverso ma soprattutto al talento degli interpreti chiamati ad interpretarla, capaci di adattarsi a tradizioni esecutive diverse. A Palermo è stata scelta l'edizione francese, con i dialoghi parlati, non senza incorrere in alcuni sapidi scivoloni, che hanno arricchito la policroma tavolozza espressiva dello spettacolo.

Si dirà, d'emblée, di ciò che ha suscitato qualche riserva, e cioè la direzione di Benjamin Pionnier, e non già perché l'orchestra non abbia risposto con la dovuta sintonia – con una menzione speciale per i soli di corno inglese e di violoncello che punteggiano le due arie di Marie. Sembrava, infatti, che la leva del freno a mano fosse costantemente tirata, che un certa qual prudenza, magari indispensabile per assicurare la tenuta degli assieme, facesse venire meno entusiasmo, joie de vivre, quell'inimitabile perlage dello champagne che dalla fossa si propaga e trasmette alla scena. Si citerà su tutti il pimpante terzetto del secondo atto, «Tous les trois réunis», d'impronta dichiaratamente pre-offenbachiana, che deve essere un congegno ad orologeria pronto a deflagrare: laddove qui si scandiva il tempo con poca cura dell'effetto finale. Adeguatamente partecipe il coro, istruito con la consueta professionalità da Piero Monti, efficace soprattutto nella scena della preghiera, all'alzarsi del sipario.

Ma per fortuna ben altra musica veniva dal palcoscenico, a cominciare dall'esemplare Marie di Désirée Rancatore, che qui trova uno dei suoi ruoli d'elezione. Perché della vivandiera padroneggia la coloratura, irresistibile e brillante – con appena una citazione alla meccanicità della bambola Olympia, dai Contes d'Hoffmann, che è stato pure uno dei suoi cavalli di battaglia; ma soprattutto il versante larmoyan, quella vena patetica che rende trascinante il crescendo di «Il faut partir», e commovente la grande aria del secondo atto, «Par le rang et par l'opulence». La figuretta fine ed elegante, l'incontenibile brio del piglio militare, il tono sempre appropriato e mai caricaturale, tutto seduce e conquista nella composizione di un personaggio di cui può a giusto titolo essere considerata un'interprete di riferimento.

La affianca Celso Albelo, Tonio accattivante e simpatico, che ancora una volta riconferma una perfetta intesa scenica con il soprano palermitano. Forse il primo atto risente ancora di qualche durezza, e così i nove, leggendari do di «Pour mon âme», se vengono intonati con il necessario trasporto, denunciano qualche segno di affaticamento. Ma è nel secondo tempo che il personaggio acquista maggior spessore, tanto da far dimenticare una pronuncia ispano-francese non sempre appropriata: così, la grande romance «Pour me rapprocher de Marie» ritrova accenti più appropriati, un calore emotivo, un fraseggio ed un legato di notevole spessore. E poi Tonio è un personaggio che gli calza a pennello, perché affrontato con la giusta dose di autoironia e bonomia, con una naïveté delicata, spontanea e sorridente.

A dominare – è il caso di dirlo – il ruolo di Sulpice era un altro artista palermitano, Vincenzo Taormina: figura imponente, ampia proiezione del suono, divertita partecipazione scenica tanto sulle vette montane quanto nell'aristocratico salotto, è soldato e padre ma prima ancora amico, e opportunamente indossa le penne del pavone, ostentando quel fascino della divisa di cui sembra cadere vittima – e non certo per la prima volta – la Marquise de Berkenfield. A questa dava corpo, voce e temperamento una Francesca Franci perennemente sopra le righe, perfettamente inscritta in una tradizione che vuole questo ruolo cantato in maniera sempre approssimativa: il continuo abuso del registro di petto rende caricaturale il personaggio, senza arricchirne la caratterizzazione vocale. Ottimo l'Hortensius di Paolo Orecchia, a suggellare un cast che vedeva impegnati anche Pietro Arcidiacono (Notaire), Emanuele Cordaro (Caporal), Alfio Marletta (Paysan) e Giuseppe Bonanno (Maître de ballet).

Tra le montagne ed i moschetti, La Fille du régiment è opera particolarmente fortunata sulla scena. Perché se in tutto il mondo circola, ormai da una decina d'anni, uno strepitoso spettacolo firmato dal regista francese Laurent Pelly – chi scrive lo ha inseguito da Londra, dove è stato creato, a Parigi, dove è stato accolto da un meritato trionfo – esiste una sola produzione capace di fare la concorrenza: quella presentata dal Teatro Massimo di Palermo, ininterrottamente dal 1959, per un totale di sei edizioni. Un autentico gioiello di famiglia, insomma, che ha varcato le soglie di molti altri teatri, dal Bellini di Catania, dove è stato utilizzato in occasione dell'ultima ripresa dell'opera, nell'ormai lontano 1980, alla Scala di Milano, che lo ha ufficialmente adottato nel 1996, immortalandolo in video.

Alle scene e ai costumi originari, firmati da Franco Zeffirelli, è stata associata, sin dal 1964, la regia di Filippo Crivelli, che tuttora firma lo spettacolo come le superficiali note illustrative del programma di sala. Rincresce infatti dover leggere che per suo merito sono state riprese le scene dipinte di alcuni spettacoli di Alessandro Sanquirico, a partire dalle «stampe a colori reperite al Museo del Teatro alla Scala» – com'è noto si tratta invece di litografie acquerellate, raccolte in volumi antologici disponibili in varie biblioteche del mondo; spiace ancora apprendere che i dialoghi parlati siano improntati alla «recitazione retorica e stentorea à la manière de la Comédie-Française.» Certo viene da chiedersi da quanti anni Crivelli manchi dal Français, da secoli modello insuperabile nella recitazione della prosa in francese; e il risultato appare tangibile non solo nella scarsa cura con cui vengono declinati i dialoghi parlati, ma soprattutto nel personaggio della Duchesse de Crakentorp, qui interpretato en travesti dall'eclettico Filippo Luna nel segno di una grottesca contaminazione franco-partenopea francamente imbarazzante.

Rimane il pregio di uno spettacolo di fluidità, nitore e poesia incontestabili: per merito dei vividi costumi, nelle tinte dei colori primari, e soprattutto di scenografie dipinte nello stile delle immagini di Épinal, figurine popolari dai colori vivaci diffuse in tutto il territorio francese, per iniziativa dell'incisore Jean-Charles Pellerin, a partire dai primi anni dell'Ottocento. L'intento ironico, quando non garbatamente satirico, viene enunciato sin dall'Ouverture, in cui le immagini delle campagne napoleoniche sfilano all'interno di un arco scenico che ricorda quello del Pollock's Toy Theatre, il teatrino di marionette che sorgeva nel mercato di Covent Garden a Londra. La finzione scenica viene celebrata dalla bidimensionalità di scene e attrezzeria, quinte e praticabili tutti abilmente tratteggiati: dai cannoni ai vasi di fiori, dalle bandiere che garriscono al vento al salotto capitonné del castello di Berkenfield. L'opera donizettiana – ma forse l'intera stagione del melodramma italiano – brilla così in una visione malinconica e affettuosa, nel dorato tepore di un meriggio d'autunno: e rivive per sempre con gli acquarelli un po' scialbi, le stampe, i cofani, gli albi dipinti d'anemoni arcaici, le tele di Massimo d'Azeglio, le miniature, i dagherrotipi… Rinasco, rinasco del mille ottocento cinquanta!

Giuseppe Montemagno

10/10/2014