RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 

 

Die Zauberflöte

alla Fenice di Venezia per la regia di Damiano Michieletto

C'era grande attesa per l'ultimo titolo della Stagione Lirica al Teatro La Fenice: Die Zauberflöte di Wolfgang Amadeus Mozart nella nuova produzione firmata da Damiano Michieletto. Curiosa la scelta di chiedere e aprire la nuova programmazione con lo stesso autore, infatti, a novembre si inzia con Idomeneo.

Il flauto magico è un singspiel in due atti, ultima opera in cronologia del salisburghese, su libretto di Emanuel Schikaneder, colui che risollevò le sorte del compositore dopo l'ascesa al trono di Leopoldo II e la chiusura delle logge massoniche. È noto che l'argomento dell'opera si rifà alla mitologia antica dell'Egitto in un clima culturale in cui Iside e Osiride avevano una peculiare influenza sulle religioni, dèi ai quali inneggiano i sacerdoti iniziati che si nutrono di cultura ma sono sofferenti alle luci. L'opera spazia in una variegata ambientazione orientale (l'Egitto è solo una parte), una varietà di costumi esotici, intersecati tra loro, raffiguranti il rituale massonico, ma soprattutto il divertimento favolistico della gioventù nel quale Mozart costruisce il tempio della concordia, potremo rilevare che le pulsioni sono regolate da una legge di saggezza e bontà che dovrebbe essere il comune denominatore del vivere terreno.

Damiamo Michieletto, regista sempre stravagante ma assolutamente originale, intelligente e studioso di ogni suo spettacolo nel minimo particolare, ambienta l'opera in una scuola, tralasciando l'ambientazione orientale. La drammaturgia si sviluppa in una sorta di “buona e cattiva scuola” o “scuola laica e religiosa” nella quale il passaggio all'età adulta di Tamino e Pamina deve svincolarsi tra il bene e il male superando le prove e la libera erudizione che sarebbe, ed è, il trampolino dell'essere illuminista. Concettualmente il filo conduttore è calzante e realizzato, in parte, con assoluta innovazione e precisione. Già nell'ouverture si assiste alla proiezione sulla lavagna scolastica di frasi in latino, formule matematiche e fisiche, elaborazioni chimiche, che lo svogliato studente Tamino cancella producendo così la comparsa del serpente malefico. Anche la giovane Pamina è una ragazza molto adolescente, troppo vincolata da una madre che vive nella notte conflittuale degli dèi, una sorta di convento che è ancorato a schemi religiosi ed estraneo alla cultura e al sapere. Caratteristiche le tre dame, le quali sono suore molto “di Monza” e poco predisposte alla spiritualità, e Monostatos, bulletto e sadico studentello poi convertito alla buona scuola dello studio. Sarastro è il custode del sapere, pertanto sommo e anziano docente, che con fermezza saprà aiutare i giovani ad affrontare una vita adulta basata sulla cultura. Bellissima la scena in cui Monostatos è esorcizzato dal suono del glockenspiel di Papageno e subisce una vera e propria scena di bullismo da parte dei suoi stessi complici. Papageno è ridotto a vecchio e ingobbito bidello della scuola, personaggio discutibile tuttavia focalizzato nel ruolo di uomo confusionario, voglioso ma sincero e commuovente. Sensazionale la scena del rogo dei libri del sapere, che richiamano a un passato orrendo ma anche con rigurgiti odierni, prontamente salvati da Sarastro.

Fin qui tutto bene, tante idee coerenti, bel linguaggio drammaturgico ma in fondo quest'allestimento non coinvolge. Perché? A chi scrive, è parso che il regista abbia volutamente tralasciato l'aspetto favolistico della storia per concentrarsi solo su quello drammatico. È strano, perché Michieletto è un attento studioso di tutto quello che realizza, ed eliminare tale aspetto è grave errore perché elemento imprescindibile del singspiel. Dopo aver impostato la “sua” idea, seppur accattivante e originale, non ci resta altro che una continuità moderata che rasenta il prevedibile e tralascia la poetica. La Regina della notte ricorda un'austera Frau Rothermeier, Papageno in grembiule per tutta l'opera, i saggi impersonati da vecchi e moribondi, come che il sapere sia fonte solo di esperienza e vecchiaia, sono concetti non del tutto condivisibili e soprattutto già visti. Il senso del dejà vu ha reso il secondo atto noioso, poiché le carte erano già tutte scoperte, e ripeto mancava totalmente l'allegorico e il fiabesco.

Paolo Fantin ha sempre mano felice nel creare scene azzeccate e originali, in particolare la grande lavagna scorrevole che fa spazio al mondo austero e dogmatico della Regina della notte, oppure la meravigliosa foresta nel secondo atto, anche se la tenda canadese da boyscout era ridicola. Non particolarmente ispirata Carla Teti, anche per l'impostazione registica, la quale ha disegnato grembiuli e convenzionali abiti che non lasciano traccia. Bravissimi i video disegnatori Carmen Zimmermann e Roland Hovarth nel creare un segno virtuale di altro livello, affascinanti le luci di Alessandro Carletti.

Antonello Manacorda, direttore e concertatore, non segue di pari passo la partitura, che interpreta in maniera antimozartiana con passo veloce, talvolta troppo, perdendo alcuni cantanti, accento marziale e sonorità accese che sovente non sviluppano la magia della partitura anche se sempre dettagliate nel singolo elemento. L'imitazione di alcuni maestri talvolta non è molto producente. Ottima la prestazione del coro istruito da Ulisse Trabacchin.

Il cast era di sommaria ordinarietà ad eccezione del Papageno di Alex Esposito, vocalmente preciso, strepitoso scenicamente e punto di riferimento odierno per tale ruolo e repertorio. Peccato fosse costretto in una figura scenica così gretta e limitata.

Antonio Poli era un Tamino anche solido con bella voce lirica, purtroppo limitato alla sola zona centrale perché non appena tenta di salire il suono si strozza e diviene sfibrato. Onesta la Pamina di Ekaterina Sadovnikova, anche se non sarebbe guastato qualche fraseggio più curato, e appena accettabile la Regina di Olga Pudova, troppo leggera e lirica per il ruolo, tuttavia abbastanza precisa ma senza sbalordire. Il Sarastro di Goran Juric era autorevole solo scenicamente poiché vocalmente doveva fare i conti con notevoli problemi tecnici e uno strumento che mancava di pastosità e autorevolezza. Spigliata e simpatica la Papagena di Caterina di Tonno, eccellenti i tre geni fanciulli del Müncher Knabenchor, preciso e ben risolto il Monostatos di Marcello Nardis.

Brave, seppur non sempre omogenee, le tre dame cantate da Cristina Baggio, Rosa Bove e Silvia Regazzo, purtroppo inascoltabile l'Oratore di Michael Leibundgut, professionali e precisi William Corrò (primo sacerdote e secondo armigero) e Federico Lepre (secondo sacerdote e primo armigero).

Sull'esito musicale anche il pubblico ha percepito che la resa non era del tutto lusinghiera (dal Teatro La Fenice ci si aspetterebbe di più), infatti, in tutta l'opera mai un applauso dopo le arie ad eccezione per le celebri arie della Regina della notte e il duetto Papageno-Papagena, il che la dice lunga. Al termine tuttavia non è mancato un unanime consenso a tutta la compagnia.

Lukas Franceschini

7/11/2015

Le foto del servizio sono di Michele Corsera.