RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 Quando la banda passò…

E chi se l'è dimenticato l'abito bianco di Nina, la remissiva protagonista di Carnezzeria (2002), il secondo atto unico di Emma Dante, al cuore di quella Trilogia della famiglia che per la prima volta squadernava vizi (tanti, forse tutti) e virtù (pochissime) della società palermitana? O ancora quell'altro – siamo già alla Carmen (2009) scaligera – di Micaëla, celato sotto il nero d'ordinanza, un velo fitto come una rete, una gabbia inestricabile pronta a trasformarsi nel lettone da cui la fidanzata-mamma morente impartiva l'estrema benedizione al pavido don José?

Una sposa s'aggira anche in Feuersnot, l'opera di Richard Strauss che ha inaugurato la stagione lirica 2014 del Massimo di Palermo e che, al tempo stesso, ha sdoganato Emma Dante in un teatro pubblico del capoluogo isolano. L'uno e l'altro un evento, ma forse il secondo più del primo, destinato ad aprire le celebrazioni per il 150° anniversario della nascita del compositore bavarese. E proprio Feuersnot – termine intraducibile in italiano: indica la mancanza di fuoco, tanto in termini materiali quanto metaforici, come assenza della sacra fiamma dell'amore, in un mondo votato alla sterilità culturale – si è rivelato scelta provvidenziale, artisticamente azzeccata, e non solo perché titolo raro del pur ricchissimo catalogo operistico straussiano.

Composto appena dopo Guntram (1894), l'operaprima completata a Villa Blandine di Ramacca, e ultimato a Charlottenburg il 22 maggio del 1901, «nel giorno anniversario e a maggior gloria dell'Onnipotente»… Wagner, Feuersnot è un vibrante atto d'accusa contro Monaco di Baviera, città sonnolenta e provinciale. Città indifferente, soprattutto, tanto al talento del compositore quanto a quello poetico del librettista, il nobile Ernst von Wolzogen, che presto sarebbe emigrato a Berlino per fondare l'Überbrettl, uno storico Kabarett al quale anche Arnold Schoenberg avrebbe destinato quattro graffianti Lieder. È, dunque, la storia, la cronaca del rapporto controverso con un angusto ambiente cittadino che, prima ancora di Strauss, non aveva saputo riconoscere e apprezzare neanche Richard Wagner, il grande rinnovatore del dramma musicale tedesco, non a caso ironicamente citato in più luoghi della partitura. L'opera si svolge, infatti, durante la notte di San Giovanni, la più lunga dell'estate, la stessa in cui ha luogo l'azione dei Meistersinger von Nürnberg; e non è certo un caso che riecheggino alcuni temi del Ring – quello di Fafner e, naturalmente, quello del fuoco – o alcuni temi-chiave della drammaturgia wagneriana, dal sortilegio d'amore alla redenzione del mondo, realizzata grazie all'intercessione di una figura femminile. Tutti richiami che, sommati all'atmosfera da Märchenoper alla Humperdinck, suggerita dai cori popolari intonati dai bambini («Maja, Maja, mia mö») e dalla protagonista («Süße Amarellen»), conferiscono all'opera una tinta eterogenea eppur chiaramente idiomatica, tale da far presagire gli sviluppi futuri di un operista già maturo. Ne è segno esteriore, ma non per questo meno incisivo, la struttura in un atto unico, il primo di una lunga serie (da Salome a Capriccio, passando per Elektra, Ariadne auf Naxos, Friedenstag e Daphne) capace di condensare la materia drammatica in una dimensione connotata da una brevitas folgorante.

Più che opera del rifiuto, Feuersnot è allora atto di denuncia e di provocazione, tanto nel bacio rubato dal mago Kunrad all'algida Diemut, quanto nel desiderio di questa di far finta di concedersi, salvo lasciarlo penzolare nella cesta della legna fuori dal balcone, a notte alta, esposto al pubblico ludibrio di una città superficiale e burlona. Emma Dante coglie perfettamente la cifra trasgressiva dell'opera – come l'erotismo sotteso, il desiderio di conquista che anima l'agire del mago e gli fa conquistare una preda, alla fine consenziente. E per questo non esita a far cominciare l'azione ben prima che la musica inizi: quando il pubblico entra il sala il sipario è aperto, creando un evidente effetto di specchio tra la sala e la scena. Di più. L'accordatura degli strumenti dura ben dieci minuti – non prima, ma durante lo spettacolo – un tempo lunghissimo in cui la scena viene occupata da acrobati e giocolieri, danzatori e funambuli, un grottesco corteo che precede una coppia di sposi: sfilano come un serpente, lungo tutta la scena, e il velo bianco della sposa circonda, avviluppa tra le sue spire i personaggi e la musica fantasmatica che li accompagna, una vertigine d'assoluto che scuote e destabilizza il teatro. Proprio come il velo in cui s'impicca Nina, promessa sposa di nozze incestuose, proprio come l'abito bianco di Micaëla, camicia di forza di convenzioni sociali che scandiscono una quotidianità invasiva e invadente.

E allora la scena – disegnata da Carmine Maringola, con un occhio alle architetture urbane surrealiste di Emilio Tadini – viene delimitata unicamente da una facciata: di una piazza del Sud o del Nord, di ieri o di oggi, con tante finestre dietro le quali dapprima brilla il fuoco avido della curiosità e dell'invidia, quindi il buio dell'arte. È forse il momento di maggior coinvolgimento dello spettacolo, perché s'immagina che Kunrad non sia solo un mago ma soprattutto un musicista, una sorta di pifferaio magico al cui volere risponde l'allegra brigata, la banda prima descritta, che improvvisamente perde la luce della musica, di quegli strumenti di legno che – come nella più torva tradizione dei Bücherverbrennungen, i roghi dei libri del regime nazista – vengono bruciati, distrutti, annientati.

Ma il fuoco continua ad ardere. Brucia nella concertazione di Gabriele Ferro, che per una volta si riscuote per dar vita, colore e calore ad un'orchestra in cui convivono l'alto e il basso, il colto e il popolare, gesti sonori magniloquenti ereditati dalla sfavillante tavolozza dei poemi sinfonici; brucia nella virtuosistica prova del coro, istruito da Piero Monti, come nella brillante prova delle Voci bianche, sotto la guida di Salvatore Punturo. E addirittura s'incendia nella bella prova di un cast di straordinaria omogeneità, in cui – per una volta – prevalgono i contributi dei tanti comprimari – Michail Ryssov e Rubén Amoretti, Alex Wawiloff e Paolo Orecchia, Cristiano Olivieri e Paolo Battaglia, con una menzione particolare per le tre amiche pettegole di Christine Knorren, Chiara Fracasso e Anna Maria Sarra – a far da corona a Nicola Beller Carbone, Diemut seducente nella pienezza di una vocalità rigogliosa, e a Dietrich Henschel, Kunrad forse affaticato, rispetto ad altre, mirabili prove, da una presenza scenica a tutto campo.

E allora la vita ritorna a scorrere: già subito dopo il bacio, nello slancio vitalistico di un valzer, liberatorio grido apotropaico come quello di ‘mPalermu; quindi nel finale, quando il rosso e l'oro e l'arancione e il giallo di mille lingue di fuoco invade la scena, mentre un velo da sposa diventa una nuvola leggera che si libra verso un cielo di sedie, dove volteggia una Danza al ritmo di Chagall.

Giuseppe Montemagno

28/2/2014

Le foto del servizio sono di Franco e Corrado Lannino/Studio Camera.