RECENSIONI
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Paisiello ha trovato l'America

 

Per un operista come Paisiello, dove la squisitezza dell'intarsio rischia di smussare gli aculei della teatralità, la forza emotiva rimasta tra le righe del pentagramma si può restituire attraverso strade diverse: ora un prezioso settecentismo figurativo, che raffreddando ulteriormente un autore già in sé poco sanguigno finisce per svelarne le ragioni; ora un viraggio nell'ambientazione moderna, capace di recuperare quei fremiti sottopelle che ci fanno sentire nostro contemporaneo il Paisiello drammaturgo musicale; ora un contesto all'apparenza straniante, dove il territorio di condivisione con il pubblico non è l'attualità dei sentimenti, ma la loro perennità (e, più ancora, quella dei meccanismi che li veicolano). Isa Traversi sceglie la strada del contesto straniante. Realizzando al Paisiello Festival di Taranto regia, scene e costumi delle Gare generose ci proietta in un mondo visivo che, di primo acchito, sarebbe difficile apparentare con quel secolo dei lumi in cui il musicista tarantino trascorse la maggior parte della propria lunga esistenza: a far da cornice della stringata e variegata scatola scenica che accoglie gli spettatori nel quattrocentesco Chiostro di Sant'Antonio sono, infatti, le immagini più iconiche della Pop-Art americana, dai volti fumettistici di Lichtenstein alle pubblicità di Rosenquist, giù fino alle sagome di Keith Haring passando ovviamente per Andy Warhol. Il tutto fertilmente contrappuntato da costumi (almeno in senso evocativo) settecenteschi.

A questo punto sarà bene specificare che Le gare generose – partitura caduta in letargo a inizio Ottocento dopo i successi raccolti tra il 1786 e la fine del secolo, riproposta in prima esecuzione moderna ora a Taranto – è opera di ambientazione americana (Boston, per la precisione); che, nonostante la sua natura di “commedia per musica”, alla radice del testo di Giuseppe Palomba c'è un libretto assolutamente serio (Amiti e Ontario) scritto una quindicina d'anni prima da Ranieri de' Calzabigi; e che, anzi, forse proprio per questo la critica del tempo rimproverò al compositore una musica fin troppo sentimentale e pacata per un'opera buffa. La contaminazione dello stile serio all'interno del genere comico, d'altronde, è spesso una nota distintiva in Paisiello: e questo rimescolamento geografico (personaggi italiani, alcuni caratterizzati pure dialettalmente, catapultati dalla sorte oltreatlantico), narrativo, espressivo che informa Le gare generose ha più d'un punto di contatto, a ben vedere, con il pensiero estetico della Pop-Art.

Il claustrofobico microcosmo raccontato da Palomba e Paisiello – sei personaggi all'interno di una stanza che acuisce le tensioni ed esaspera le differenze sociali – si proietta così in una prospettiva estetica spiazzante ma paradossalmente appropriata, dove pure gli oggetti “recitano” (formidabile il lavoro registico sul battipanni, il piumino, il ventaglio, le bambole): se il nucleo d'interesse della Pop-Art è l'attenzione all'uomo comune e alla vita domestica di massa, l'interno borghese delle Gare generose, con i suoi stereotipi della serva scaltra, dell'anziano ringalluzzito e della zitella smaniosa, si presta bene al disegno. Mentre quel concetto di “accessibilità” che informa il pensiero artistico di Warhol viene riassunto, invece, dalla presenza d'una sorta di contropubblico: una manciata di diseredati culturali (casalinghe teledipendenti, tatuati in canottiera, donne di taglia forte in minigonna e ruminanti chewing gum …) che non hanno mai messo piede in un teatro e, a inizio spettacolo, si siedono al proscenio, guardando in faccia gli spettatori e diventando la loro cattiva coscienza.

In tale prospettiva, perfino certi limiti del cast si trasformano in pregi. Bruno Taddia è un buffo scatenato ma lombardo, il suo vernacolo napoletano è costruito tutto a tavolino: in altre situazioni si avvertirebbe una certa artificiosità, mentre una prova del genere è assai funzionale al Paisiello “straniante” messo in moto da questo spettacolo. E pure il vibrato (sempre piacevole, mai invasivo) della protagonista Marianna Nappa a fianco dell'emissione assai più fissa, da barocchista, del contralto Giulia Mattiello qui è veicolo non di una babelicità canora, ma d'una sovrapposizione di antitetiche qualità espressive che, a sua volta, “fa” molto Pop-Art. Anche gli altri interpreti rispondono al gioco messo in moto dalla regista, dispiegando una recitazione corporea (la Traversi nasce coreografa), una plasticità gestuale, una musicalità attoriale che sono il marchio più autentico dello spettacolo: Manuel Amati sciorina la sua parte di bellimbusto con spavalderia tenorile, affiancata però a un estro caricaturale ignaro di qualsivoglia tenorismo; Stefano Marchisio sarebbe fisicamente e vocalmente acerbo per incarnare il vecchio Mister Dull, eppure compie prodigi camaleontici. Quanto a Maria Luisa Casali, trasforma un tipico ruolo di mezzo carattere in un'autentica coprotagonista: questa figlia prepotente e viziata, o forse solo insicura, è un mix di alterigia pettegola e lirismo paradossalmente illanguidito che lascia il segno nello spettatore.

Semmai si nota minor sintonia tra palcoscenico e podio: alla “prima” qualche scollamento c'è stato. Direttore di lunga militanza paisielliana, Giovanni Di Stefano individua però il giusto colore, il giusto fraseggio e la giusta idiomaticità (compresi certi riverberi haydniani e mozartiani). Sicché alla fine di quest'opera comica nell'impianto, ma seria nella fonte e sincretica nel linguaggio, restano solo le ragioni della musica. Il volto di Paisiello campeggia sullo sfondo dello scenario, come fosse una delle infinite riproduzioni di Warhol: ma isolata, non seriale. E se le riproduzioni di uno stesso fotogramma svuotano in Warhol l'oggetto del suo significato, quell'immagine isolata sembra suggerirci che, qui, l'unica cosa ad avere senso è proprio lui: Paisiello.

Paolo Patrizi

20/9/2018

La foto del servizio è di Carmine La Fratta.