RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

9/4/2016

 

 


 

L'invenzione del mito

La speranza è quella di non risultare retorici e ripetitivi, di questi tempi, scrivendo per una volta ancora del surrealismo di una teatro semivuoto. Però si sente il bisogno di parlarne dal primo contatto con una sala diradata dalle misure anti-covid e che invece bisogna immaginare gremita, visto il successo degli ultimi lavori del regista e coreografo greco e l'attesa, iniziata subito dopo i mesi di lockdown, per questo nuovo spettacolo.

Ink, in scena al Teatro Valli con quattro repliche il 26 e 27 settembre 2020, è stato coprodotto dal reggiano Festival Aperto e da Torinodanza, ma ci piace di più dire commissionato, come un cliente abbiente chiederebbe ad un grande artista di affrescare il proprio palazzo. O a un bravo sarto di cucire un bel cappotto su misura.

Papaioannou è l'uno e l'altro: personalità creatrice dall'immaginazione grandiosa, ma anche fine lavoratore, indagatore della materia, dell'oggetto. Questa caratteristica non è di certo una novità nell'opera del regista, vista la continua ricerca sulla fisicità del corpo umano e alla sua interazione con spazio e materia, ma in questo spettacolo affiora più che negli altri il raffinato processo di osservazione dei piccoli gesti, degli oggetti comuni, della magia che si manifesta nella quotidianità.

“Quanto alla fama, non mi sento un guru. Sono grato che le persone credono che io sappia qualcosa, ma quando lavoro sono lì con le insicurezze, l'angoscia, l'artigianato. C'è eccitazione e terrore perché non c'è modo per continuare a produrre cose interessanti, è la legge della fisica. Ma per ora sono felice”. È quanto dichiara il regista in un'intervista a “La Repubblica” lo scorso 20 settembre, in occasione della quale in poche battute il regista svela il proprio modo di arrivare all'idea forte di uno spettacolo partendo dalla pratica e approfondendo un rapporto fisico con un elemento, un ambiente, un suono. In questo caso quello che emerge è la dinamica del contatto tra due individui profondamente diversi – “due specie”, suggerisce Papaioannou nella stessa intervista – mentre l'elemento collante dell'intera architettura drammatica è l'acqua, distribuita copiosamente da un irrigatore agricolo, che nelle mani del regista diventa, a seconda delle esigenze sceniche, un attrezzo sonoro, visivo, funzionale.

Nell'intervista citata poco fa si parla anche del fortuito e fortunato incontro con Šuka Horn, vicino di casa del regista durante i mesi del lockdown e ora compagno di scena in Ink, vera e propria controparte, soprattutto fisica. Horn è di carnagione chiara, biondo e nudo; alla grazia dei movimenti misurati ed esperti di un maturo Papaioannou, scopritore, genitore e infine domatore della giovane creatura, contrappone un linguaggio corporeo che è un idioma balbettato e gridato. Da una parte la puntualità del gesto, il controllo della scena e della fisica degli oggetti – davvero ipnotica la magia svelata di una sfera riempita d'acqua – dall'altra, il sussulto elettrico di un organismo galvanizzato, le pose ferine, la potente fluidità muscolare.

Ink è uno spettacolo liquido, raccontato al buio, forse il vero protagonista dell'opera. La semplice scena, tre pareti di teli impermeabili che si dilatano e si ritraggono ai colpi dell'acqua, rilucono delle stelle artificiali riflesse in una sfera a specchi, come piccole galassie, è un capolavoro di finta casualità, ma in realtà un universo studiato nel dettaglio dove è palese l'enorme lavoro di osservazione e sperimentazione attorno al comportamento dei materiali – ci permettiamo di consigliare a questo proposito lo straordinario documentario di Nefeli Sarri Beyond the Wall, sulla genesi di uno degli ultimi lavori di Papaioannou.

In questa oscurità danzante gli episodi di incontro tra le due personalità, se così si possono definire, diventano abbozzi di racconti primordiali, in cui è evidente la contiguità concettuale con alcuni elementi del mito classico, dove oggetti, creature e situazioni particolari rimandano ad un kosmos universale – l'arco di Ulisse, il manto dorato di Crisomallo ed infiniti altri esempi – così come lo stile narrativo, pulito e monumentale, rimanda all'austerità della letteratura classica.

Auguriamo in conclusione un buon viaggio a chi vorrà compiere un'andata e ritorno di un'ora circa in questa galassia appena generata e in espansione – Papaioannou ha già annunciato il debutto, in dicembre, di una grande produzione affine a Ink per tematiche e aspetti formali. E alla luce di una stella cometa esprimiamo un desiderio, per il pubblico che assisterà alle prossime, eventuali repliche: che la poesia di uno spettacolo di questa portata non sia turbata, come lo è stata in questo caso, dalla conformazione di un rigido teatro all'italiana.

Giovanni Giacomelli

30/9/2020