RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

Oltre il luogo comune

Tanti compositori hanno scritto una quinta sinfonia: Beethoven ha scritto la Quinta. E, pur continuando ad essere un accesso preferenziale per chi desidera avvicinarsi al mondo della classica, l'innegabile fascino di questa composizione non deve distrarre dalla rigorosissima scienza che la ànima. Nella Quinta Sinfonia in do minore Op.67, ultimata nel 1808 ma abbozzata già nel 1804 e portata avanti a più riprese parallelamente alla Sesta Op.68, c'è tutto il Beethoven maturo. Estrema economia di mezzi melodici e assoluta predominanza del ritmo: l'intera sinfonia, per tutti e quattro i movimenti, è una glorificazione del numero tre, riproposto tanto nelle tre famose note ribattute d'apertura (cui Mahler non restò indifferente nell'attacco della “sua” Quinta…), quanto nelle macrostrutture compositive e nelle iterazioni degli incisi.

Fa sorridere che, per molti, la Quinta si condensi solo nel ta-ta-ta-taaa iniziale (icastica la puntata dei Simpson in cui tutta la comunità, riunita per un concerto, si alzi e se ne vada in massa non appena ascoltato l'incipit ): esso ne è la parte più famosa, ma deve essere letta alla luce del resto della composizione. Nella Quinta di Beethoven c'è molto più che l'oscuro compositore pessimista, costretto dalla deficienza del suo udito a isolarsi dal mondo e a ricorrere (secondo il racconto di Schindler), per spiegare al famulus l'attacco tanto assertivo: «così il Destino batte alla nostra porta», su cui si è fatta molta letteratura, peraltro fuorviante: se ascoltata dall'inizio alla fine, la sinfonia è un percorso guidato dal buio alla luce, dall'infelicità alla gioia, un'affermazione di vittoria sulle difficoltà, tipica del temperamento eroico di Beethoven. Il capovolgimento totale di atmosfera, passando dal primo all'ultimo movimento, è la chiave per capire tutto questo, attraverso la preparazione del pedale di dominante, sostenuto da un ribattuto ostinato dei timpani in pianissimo alla fine dello Scherzo, che sfocia in un luminoso finale in do maggiore, l'esatto opposto del do minore da cui si era partiti. Beethoven, profondamente conscio del suo valore e della sua missione di artista, in seno alla cultura illuminista del tempo, infonde un messaggio nella sua musica: invitare ciascuno di noi a superare con la forza di volontà il proprio dramma personale come lui ha fatto col suo, respingendo gli assalti del destino per restare «ben tetragono ai colpi di ventura»: «[…] forse in nessun'altra opera della maturità Beethoven seppe tradurre con più esemplare evidenza in valori musicali assoluti la carica dei contenuti del suo individualismo eroico, tutto teso nell'esaltazione di un umanesimo nutrito di principî etici kantiani» (G. Carli Ballola, Beethoven-La vita e la musica, Sansoni Accademia, 1967).

Ancor più si deve andare oltre il luogo comune, e contro la facile tendenza a mitizzare fatti di uomini, che, diciamocelo, son già miti di per sé, prendendo in esame i Kindertotenlieder di Gustav Mahler. È facile cedere alla tentazione di credere che il compositore, già umbratile per natura, abbia scritto questo ciclo di poesie sulla morte prematura dei bambini come in preda a una premonizione che, di lì a pochi anni, avrebbe colpito la primogenita Maria Anna “Putzi”. Ma Mahler iniziò a interessarsi alle poesie funerarie di Friedrich Rückert già nel 1901, quando ne mise in musica tre, per poi aggiungerne altre due nel 1904, dando al tutto forma di ciclo di Lieder per baritono o mezzosoprano e orchestra: ben prima, quindi addirittura della nascita di “Putzi”, e anzi, piuttosto in concomitanza con la Sesta Sinfonia, nata tra il 1903 e il 1904. Si deve piuttosto vedere in questo interesse per le liriche di un poeta minore del primo Ottocento tedesco colpito dal lutto di due dei suoi sei figli ancora in tenera età, un riflesso dell'infanzia di Mahler, segnata ripetutamente dalla morte di molti fratellini e sorelline. I testi di Rückert lo conducono verso una dimensione più intima: lontano dai roboanti effetti sonori delle sinfonie coeve, i Kindertotenlieder sono una pagina di cesello psicologico, di scavo introspettivo, che si serve di un'orchestra relativamente ridotta.

Nell'undicesimo concerto della stagione dell'Orchestra Sinfonica della Rai (OSN), diretta da Hartmut Haenchen, la Quinta di Beethoven e i Kindertotenlieder hanno ripreso vita, preceduti dal morbido e cullante Blumine, brano che originariamente costituiva il secondo dei cinque movimenti della Prima Sinfonia ( “Titan”) di Mahler, poi espunto nel 1894 per contrarre la composizione ai canonici quattro movimenti e darle la forma che oggi conosciamo (attraverso ritocchi continui che si prolungarono fino al 1909). È accaduto a Torino, il 22 febbraio 2018, con replica il 23, di cui si riferisce, all'auditorium Arturo Toscanini . Interprete: il mezzosoprano Michelle Breedt. E proprio da lei conviene partire nel riferire della serata. Voce convincente, rotonda, brunita, particolarmente a suo agio nel registro grave, nel quale i Kindertotenlieder si muovono di preferenza, Michelle Breedt dispone di notevoli doti interpretative e di immedesimazione nella parte, dato il lungo sospiro emesso al termine del quinto e ultimo Lied (passata la tempesta, reale e figurata, i piccoli riposano nella quiete – vagamente imparentato, a livello tematico, con quello che chiude la Quarta Sinfonia di Mahler): sospiro non tanto da spossatezza a fine performance, ché questi Lieder non sono né lunghi, né particolarmente impervî, ma, a mio parere, da dismissione dei panni di poeta, di padre che ricorda i figli scomparsi: immedesimazione e insieme razioncinio, secondo i dettami diderotiani del Paradoxe sur le comédien.

In gran forma l'OSN, particolarmente nella sezione dei fiati, dove la prima tromba Roberto Rossi si è guadagnato il suo wahroliano quarto d'ora di celebrità suonando perfettamente (e in piedi) gli a solo di Blumine, ma così anche Carlo Romano (primo oboe), Salvatore Passalacqua (clarinetto basso), Stefano Aprile (primo corno) e diversi altri professori d'orchestra nei Kindertotenlieder, ai quali va rimarcata, tuttavia, la caratteristica di essere stati sbozzati, in certi punti, in modo fin troppo dettagliato, con le linee melodiche dei singoli strumenti – e soprattutto le note gravi del clarinetto basso, particolarmente sonore – che a tratti sovrastavano senza un motivo apparente la voce della Breedt. E, se pur la vocalità e la filosofia del Lied tedesco si allontanano da quelle italiane proprio per la compenetrazione di voce e strumenti, e non per la sottomissione di questi a quella, va fatto notare che, bene o male, il testo deve risultare intelligibile all'ascoltatore e non sommerso dall'orchestra.

Scelta o svista di Haenchen, direttore tedesco che della musica germanica ha fatto il suo terreno d'elezione (sempre con l'OSN aveva interpretato nel 2016 Alban Berg e, ancora, Mahler). Morbido, ma senza abbandonarsi a languorose decadenze tardoromantiche il suo Blumine, languido quel tanto che lo permettono le note, e del pari contenuti e dignitosi i suoi Kindertotenlieder, il meno possibile esteriorizzati, tesi a non fare dell'inutile strepito.

Proprio per questo stupisce la conduzione della Quinta Sinfonia nella seconda parte del concerto: un attacco che, pur nel timbro scuro degli archi nel registro grave, raddoppiati dai clarinetti, si sente “gridato” – non quel dramma totalmente interno dell'eroe solitario ancora in cerca di salvezza, ma un grido d'aiuto lanciato ai quattro venti, effetto accresciuto dal ricorso ad un'orchestra di quindici violini primi, che vuol dire una sessantina di archi in tutto (mai come quando Herbert von Karajan diresse le Quattro Stagioni di Vivaldi alla testa di un'orchestra di cento elementi!). Dinamiche e accentazioni dell'impasto sonoro molto personali, e per certi versi inusuali, e contraddistinguono quasi tutta l'esecuzione, soprattutto l'Allegro con brio iniziale, nel quale viene espunta (ma perché?) il punto coronato alla fine dell'incipit, su quel Re che dovrebbe essere prolungato secondo la sensibilità dell'interprete e che viene invece ridotto al suo valore metronomico di minima. Seguono un Andante con moto e uno Scherzo che si inseriscono nel solco della tradizione come velocità e condotta delle parti. Ma all'arrivo del luminoso Allegro conclusivo, un improvviso cambio di metronomo, con battute nettamente rallentate rispetto al terzo movimento, pure marcato Allegro (ma si sa che i due Allegri della Quinta hanno valenze espressive diverse e vanno eseguiti a velocità diverse), fa da una parte acquistare maestosità al brano, tutto basato sulla negazione e sul superamento del pessimismo da cui si era partiti, dall'altra fa perdere in dinamismo e in vitalità, rendendo le melodie meno trascinanti, eccezion fatta per il Presto conclusivo, dove il tono complessivo riprende quota e conduce ad una chiusa scintillante, meritatamente sancita da applausi scroscianti e ripetuti richiami di pubblico.

Christian Speranza

3/3/2018