RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

Una serata in mi bemolle

Che cosa hanno in comune il Concerto per pianoforte e orchestra n° 5 “Imperatore” Op. 73 di Ludwig van Beethoven e la Sinfonia n° 39 K 543 di Wolfgang Amadeus Mozart? La tonalità d'impianto di mi bemolle maggiore, una tonalità molto sfruttata da entrambi i compositori per lavori divenuti fin da subito popolarissimi – la Terza Sinfonia Op. 55 “Eroica” per il primo, Il flauto magico (o, volendo stare nel campo puramente strumentale, la Sinfonia concertante per violino, viola e orchestra K 364, il Concerto “Jeunehomme” per pianoforte e orchestra K 271, ecc.): e non sono che pochi esempi.

Mercoledì 9 novembre 2016 questi due capolavori della prima scuola viennese sono stati eseguiti all'auditorium “Giovanni Agnelli” del Lingotto di Torino nell'ambito della stagione concertistica di Lingottomusica. Protagonisti: l'Orchestre des Champs-Élysées diretta da Philippe Herreweghe, solista al pianoforte: Bertrand Chamayou. O meglio: al fortepiano. Sì, perché, per un curioso caso di ricostruzione filologica, lo strumento scelto per eseguire L'Imperatore” è stato non un moderno pianoforte, ma un fortepiano. In sala i pareri si sono divisi tra pro e contro. Siamo nel 1809: pianisticamente è l'anno, per Beethoven, delle Sonate Op. 78, Op. 79 e Op. 81a (“Les adieux”); già da alcuni anni era approdato alle conquiste di Sonate come l'Op 53 “Waldstein” e l'Op. 57 “Appassionata”, composizioni in cui il volume sonoro richiesto per gli effetti drammatici è compatibile con un pianoforte di moderna concezione (o per lo meno molto simile), rispetto ad un fortepiano, più adatto a brani come le Sonate e i Concerti di Mozart (epoca: anni '80 e anni '90 del Settecento). E, per quanto Herreweghe impieghi un'orchestra tutto sommato ridotta, con quattro contrabbassi e gli altri archi di conseguenza, il contrasto tra la sonorità stentorea dell'orchestra beethoveniana e l'entrée del fortepiano, che si presenta al pubblico con una cascata di note, una cadenza che investe tutta la tastiera, è notevole, e il timbro, simile a quello di un'arpa o di una chitarra, ma soprattutto il volume di questo strumento non riesce a competere ed imporsi sugli altri strumenti. È pur vero che, una volta abituato l'orecchio, il concerto scorre bene, soprattutto nel secondo movimento, Adagio, dove l'orchestra, priva di trombe e timpani (timpani che, negli altri movimenti, si impongono con troppa violenza e qualche diacronia), lascia meglio emergere gli arabeschi del solista; ma l'impressione generale è quella di uno strumento inappropriato per il ruolo che è stato chiamato a ricoprire; il terzo movimento, poi, quello più scoppiettante di brio, sommerge talvolta totalmente il fortepiano. Come riflesso, un'esecuzione senza dubbio smagliante si ricopre di un leggero strato di polvere. Sì, perché, a parte la scelta dello strumento, il resto è ineccepibile. I tempi vengono mantenuti piuttosto veloci, molto tesi e scattanti – anche l'Adagio, benché condotto con adeguata morbidezza, non cede al languore di un tempo più lento –, dettaglio che si mantiene anche in generale nella Sinfonia mozartiana e che può essere ascritto a un certo tratto distintivo di Herreweghe; l'orchestra risponde bene alle indicazioni, con lievi défaillances da parte dei corni, più difficili da suonare per l'assenza dei pistoni (l'Orchestre des Champs-Élisées si avvale di strumenti d'epoca per migliorare l'aderenza alle esecuzioni filologiche).

Al termine dell'esecuzione, i meritati applausi per Chamayou lo convincono a concedere un fuori programma: l'Adagio dalla Sonata per pianoforte in do maggiore Hob. XVI n ° 50 di Franz Joseph Haydn. L'esecuzione di questo brano mostra in modo lampante quanto il fortepiano sia adatto a tale tipo di brani, intriso di spirito classicista settecentesco.

La Sinfonia n° 39 di Mozart è la prima del trittico conclusivo di Sinfonie nate nella primavera-estate del 1788. Non si ha notizia di dell'accademia per cui furono scritte, e non probabilmente non vennero eseguite Mozart vivente; ma non è escluso che possa trattarsi di composizioni destinate a se stesso (come probabilmente l'incompiuta Messa in do minore K 427). La struttura è quella tipica di una sinfonia in quattro movimenti, con quello lento in seconda posizione e il Minuetto in terza. Ma questa struttura viene riempita da Mozart da un materiale tematico che rappresenta la summa della sua attività compositiva in campo sinfonico – caratteristica condivisa dalle altre due Sinfonie del trittico, la K 550 in sol minore e la K 551 in do maggiore ( “Jupiter” ) – tanto da meritarsi l'appellativo di “Schwanengesang”, il “Canto del cigno”, appellativo che designa tanto la Sinfonia n° 39, quanto la triade in toto.

L'introduzione del primo movimento viene scolpita con maestria, sottolineata (fin troppo potentemente, si diceva) dai timpani. L'Allegro seguente è trattato con decisione, e la verve di cui si anima si riconferma la cifra distintiva della direzione di Herreweghe. Nell'Andante con moto viene aumentato il contrasto fra le sezioni estreme, ben levigate, e quelle interne, più drammatiche. Caratteristica notata anche in altri punti del concerto, Herreweghe tende ad esasperare i contrasti: i piani tendono al pianissimo, i forti al fortissimo. Ne emerge un profilo fortemente tratteggiato in tutti quei movimenti che fanno di questi contrasti il loro asse portante. Stranamente, meno esuberante pare essere il finale, più regolare (nell'interpretazione, non nelle note).

Il consenso di pubblico al termine del concerto spinge Herreweghe e l'Orchestre des Champs Élisées a concedere un encore: il Presto conclusivo dalla Settima Sinfonia in la maggiore Op. 92 di Ludwig van Beethoven.

Christian Speranza

13/11/2016