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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

Hitler e il suo ebreo

Mein Kamp Kabarett

Scelta davvero meritoria quella del Piccolo Teatro di Catania di proporre il 6 e il 7 dicembre, nell'ambito di una stagione teatrale volta a esplorare temi ancor oggi (purtroppo) quanto mai attuali, la pièce dello scrittore ungherese George Tabori Mein Kampf, che il regista Nicola Alberto Orofino ha ribattezzato Mein Kampf Kabarett, con l'intento esplicito di sottolinearne non solo la vis polemica, ma anche e soprattutto l'aspetto satirico e surreale.

Definita dal suo autore «… una storia banale, nel senso hollywoodiano del termine. Una grande storia d'amore. Hitler e il suo ebreo. Un caso orribile…» Mein Kampf Kabarett è un testo estremamente composito e stratificato, nel quale confluiscono, oltre all'intento marcatamente demistificatorio e ridicolizzante il cui bersaglio principale è appunto Hitler, suggestioni culturali quanto mai varie, dalle citazioni bibliche a elementi fantastici, dagli assunti estetici dell'Espressionismo tedesco (che la regia di Orofino ha sapientemente evidenziato) al cinema di Chaplin (Il grande dittatore), oltre a una sotterranea polemica contro la stretta ortodossia ebraica e a una latente vena marxista che problematizza appunto l'ebraismo, reo, come tutte le religioni, di costituire un potentissimo oppiaceo per l'uomo. A differenza del Senza Hitler di Eodardo Erba, che esamina la Storia universale a partire dall'assunto che il futuro dittatore sia stato ammesso all'Accademia di Belle Arti di Vienna e abbia proseguito nella sua carriera di pittore, e lo mostra al pubblico ormai vecchio e stanco, acido e scontroso con la moglie Eva Braun, mentre intorno a lui il mondo vive in un'atmosfera di pace e di estrema civiltà, il lavoro di Tabori si prova a esaminare i primordi di Hitler, per meglio mettere in luce le contraddizioni del Führer, presumibilmente di famiglia ebrea, pittore fallito, livoroso ma pronto a farsi subornare e guidare per le dande dal primo venuto, nello specifico da Herzl, un ebreo ospite di un ospizio dove vive anche un altro ebreo, Lobkowits. L'idea di collocare il giovane Hitler in un ospizio trae spunto storico dalla vita del Führer nel biennio 1911-1913, durante il quale egli, ridotto in miseria, dormiva appunto in un ospizio e raggranellava qualche spicciolo vendendo i suoi acquarelli per strada. Pare che un giorno un passante ebreo, che vendeva vestiti usati, e per il quale aveva dipinto alcuni cartelloni pubblicitari, gli avesse regalato un cappotto, impietosito per la sua miseria.

Su questi elementi storici Tabori ha costruito un testo di rara intensità, nel quale emergono impietosamente tutti i caratteri più deteriori dell'uomo più nefando e criminale della storia, testo che è opera meritoria rappresentare, perché non si dimentichino i crimini di colui che Churchill definiva un delinquente col quale nessuno stato avrebbe mai dovuto trattare; è un Hitler isterico e francamente pazzo quello che emerge dalla pièce, debole di mente, privo di carattere, inutilmente aggressivo e profondamente irriconoscente, un Hitler nel quale la Morte, che si presenta all'improvviso nel dormitorio cercandolo, ravviserà un preziosissimo complice, un utilissimo fornitore di cadaveri, e per tale motivo accetterà di lasciarlo in vita, presaga dei bei doni che il Führer saprà recarle.

La regia di Nicola Alberto Orofino è perfettamente riuscita a far emergere tutti questi tratti, la profonda vis polemica e gli spunti comici del lavoro, grazie anche alle scene e ai costumi di Cristina Ipsaro Passione, minimalisti ma al tempo stesso icastici e fedeli ai dettami dell'Espressionimo tedesco, con la loro prevalenza del grigio metallico, di colori netti e di un trucco degli attori ulteriormente “tipizzante”; il regista ha guidato con mano sicura la recitazione degli attori, orientandoli su gesti e movenze talvolta volutamente sopra le righe e su una dizione a tratti impostata ed esagitata, tutte caratteristiche che, se da un lato richiamavano la comicità del Kabarett, dall'altro ammiccavano al teatro di Toller e Wedekind nel tentativo di evocare quanto mai ostensivamente il simbolismo del testo.

Molto incisivo Francesco Bernava, nei panni di Lobkowits, l'ebreo che si crede Dio e ogni giorno inscena una grottesca pantomima con lo scrittore Herzl, mistificatore e ingenuo folle impersonato da Luca Fiorino, che è riuscito a rendere appieno il duplice spirito del suo personaggio, ebreo convinto della propria religione ma pronto a metterla comunque da parte qualora convenga, scrittore velleitario e balia del giovane Hitler, evidenziando un'ottima mimica e una plastica gestualità che gli hanno permesso di porsi come collante e al tempo stesso simbolo per eccellenza di tutto il lavoro. Di grande effetto la resa di Hitler da parte di Giovanni Arezzo, che ha saputo esacerbare tutti i tratti più deteriori del futuro dittatore, spingendosi fino a una caricatura macchiettistica scientificamente delineata, dove il pittore fallito, il nevrotico e il mostro sanguinario emergevano in tutta la loro simbolica, distruttiva potenzialità. Brava anche Alice Sgroi, l'amica-amante di Herzl, dai tratti molto simili a quelli della Margherita di Bulgakov, e perfetta nella sua statuaria ieraticità Egle Doria, nei panni della Morte, in cui ha saputo unire agli elementi classici della rappresentazione della Signora in Nero le suggestioni più moderne e inquietanti suggerite dalla filmografia novecentesca.

Giuliana Cutore

12/12/2019