RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


Delitto e castigo

Tre navi di battaglia di un futuro arcaico e plumbeo sembrano quasi strappate a The road di Mc Cormack.

Torreggiano in fondo alla scena, allineate, alla stessa distanza l'una dall'altra. Sono scheletri onnipresenti, inossidabili ma inamovibili che nessun vento riuscirà a spingere e nessun mare lascerà salpare finché lo scandaloso e “necessario” sacrificio verrà consumato. Ai lati, aplustri e polene si sono già staccate, quasi fossero per conto loro e vivessero di vita propria e corsiere, toro, Nike sono ormai spettatori sinistri e incolpevoli. In basso, su una sorta di riva sabbiosa, ecco il divano-trono scabro e duro come il legno, intorno al quale, più avanti, si scontreranno i fratelli forse più efferati e sciagurati del Mito, Agamennone e Menelao per lasciar posto, a un sospiro dal finale, al fiammeggiante agone rettangolare che vede il testa a testa tra Clitemnestra e Agamennone.

L'Aulide sul Temenite (al Teatro antico di Siracusa per la seconda produzione del 51° Ciclo di spettacoli classici dell'Inda, Ifigenia in Aulide di Euripide, regìa di Federico Tiezzi, scene di Pier Paolo Bisleri) è pronta ad accogliere delitto e castigo.

Ossia i dolori della giovane primogenita di Agamennone invitata a lasciare la reggia, con la madre Clitemnestra, e raggiungere il padre con il pretesto di blasonate nozze con Achille, da un canto; dall'altro, il pensoso, contenuto strazio dell'Atride, che, preoccupato che le truppe gli si rivoltino contro, deve rassegnarsi a perdere la figlia, pretesa in sacrificio dalla dea Artemide in cambio della vittoria greca su Ilio.

Assai più che prequel della “perfetta” trilogia eschilea (come annota Tiezzi nel programma di sala), è perfetta tanto da bastare a se stessa, Ifigenia in Aulide, allestita postuma dal figlio di Euripide, probabilmente nel 405. È pura, stupefacente, lucida, appassionata algebra drammaturgica, è prodigioso anello di congiunzione tra la tragodìa più primigenia ed il dramma moderno – prodotto finito e infinito, Ifigenia, in termini di richiami a tematiche universali, dotata di un'autonomia concettuale che la rende felicemente (seppure tragicamente) atemporale. E che non ha punto bisogno di didascalie e “guida all'età contemporanea” come le tuniche arancioni (le ragazze che la conducono al sacrificio e la stessa Ifigenia, liberatasi dal mantello porpora di principessa) che richiamano chiaramente ai prigionieri di Guantanamo en pendant con il boia rigorosamente incappucciato e nerovestito come i tagliatori di teste dell'Isis.

Allusioni cromatiche a parte, appropriata e correttamente atemporale è la scelta dei costumi (Giovanna Buzzi) di linea segnatamente etnica che, se da una parte affranca dal peplo, dall'altra, evita (e per fortuna!) triti corredi di doppiopetto, bombette, velette, cravatte dell'avanguardia della prima e dell'ultima ora. Corazze preziose, piuttosto, elmi dorati ma anche e soprattutto kaftani, mantelli di buon peso come quello di Agamennone, istoriato da ciò che sembra tempesta di perle in realtà piccolissime conchiglie. Per Clitemnestra, mantello-soprabito rosso, già tristo presagio di sangue – quello di sua figlia Ifigenia prima ancora di quello del marito e dell'amante Cassandra, omicidi per cui ci hanno, da sempre, insegnato ad odiarla almeno quanto la odia Elettra, da Sofocle a Von Hoffmansthal.

Le musiche (Francesca Della Monica, Ernani Maletta) erano ora d'ordinanza con citazioni non lontane da certi respiri alla Ennio Morricone, ora reimpastate con sonorità dell'Est, in una Macedonia di stilemi tanto gradevoli quanto manierati.

“Al contrario di quanto ti ho scritto prima, figlia di Leda, ti dico di non mandare la bambina …Celebreremo le sue nozze in un altro momento” (Agamennone). “È perfettamente padrone della sua mente, salvo che con te e tua figlia. Delira solo in questo” (Vecchio). “Se gli dei esistono, otterrai la fortuna che merita un uomo buono. Se non esistono, a che serve la nostra sofferenza?” (Clitemnestra). “Con la mia morte riscatterò tutto questo, e morendo otterrò la fama felice di aver reso libera la Grecia. Perché dovrei essere tanto affezionata alla vita? Tu mi hai generato per tutto il mio popolo, non per te sola” (Ifigenia).

Sono scampoli – guizzanti – di un'architettura di parole che ne ha del prodigioso. E giacché, come diceva Kraus, la lingua è madre e non ancella del pensiero, nell'italiano di Giulio Guidorizzi sta il vero ristoro all'unica – legittima – sete di contemporaneità. La sua traduzione (riscrittura poetica devotamente fedele all'originale, verrebbe lecito dire) rappresenta, oggi (con i contributi di Umberto Albini, forse) l'unica risposta, illuminante e illuminata, alle passate (e datate) vestigia dei grandi Valgimigli e Romagnoli. Quella di Guidorizzi è, vivaddio, lingua intensissima ma “praticabile” perché “vestibile” in termini di teatralità e diventa veicolo unico e unica conditio sine qua non perché i classici siano riconoscibili in noi e noi riconoscibili in loro.

Perciò l'italiano di Guidorizzi faceva la differenza nel prologo di Agamennone quando traccia le coordinate della storia e della Storia, con il grande merito di ridimensionare la ieraticità (quella di parola, almeno, quanto alla gestica, le plastiche braccia a trapezio rovesciato sono il suo forte) a cui tanto è affezionato Sebastiano Lo Monaco che qui, invece, ci rinuncia a favore di un Atride politicamente tormentato, intimamente straziato e non gridato (salvo aggiustarsi spesso, molto spesso, il testo ad libitum). E dell'italiano blasonato e fruibilissimo ne godevano la regina – la Clitemnestra di Elena Ghiaurov, tetragona e ferita a morte lei pure, è capace di un mirabile crescendo che, da solo, vale il IV episodio – e sua figlia, Infigenia, che in Lucia Lavia trova una piccola, saggia, folgorante “tibetana” dell'arte teatrale, credibile sempre e sempre lucidamente pasionaria. Ma il luminoso verbo “alla greca” recuperato dal traduttore spetta di diritto alla bellissima, autorevole figura del Vecchio servitore che Gianni Salvo permea di saggezza e vulnerabilità non senza dei momenti di tragicomica, sorprendente “biomeccanica”: il regista ha qui inopinatamente tagliato in più punti il ruolo, mutilandone (perché e per chi, non si sa) l'incidenza drammaturgica e drammatica.

Due prestanti presenze maschili, Francesco Colella (Menelao) e Raffaele Esposito (Achille) – a tratti un po' troppo colloquiale e “cantato” il primo, un Pelide garbatamente de noantri, il secondo – e due Corifee d'assoluto valore (Francesca Ciocchetti, Deborah Zuin), voci flautate e imperiose, piglio epico e catturante. E ben figuravano Turi Moricca (araldo), Giorgio Rizzo (musicista), Mirea Bramante (Oreste bambino).

Last but not least (altroché!), il Coro.

Quaranta anime-corpi, tra donne e uomini (le giovani promesse dell'Accademia d'Arte del Dramma Antico, sezione Scuola di Teatro “Giusto Monaco”) ispirati, agguerriti, dedicati alla poesia e all'azione teatrale che, in un futuro assai prossimo, varrà la pena d'istruire in tutti i possibili “modi” scenici.

Per esempio, affrontare la sfida di recitare il Coro in coro senza spezzarlo nella convinzione di renderlo comprensibile ai più.

Ma ne siamo sicuri? Siamo sicuri che la platea di oggi non apprezzerebbe la “coralità” se questa fosse ben orchestrata, aritmeticamente e logicamente? Siamo sicuri che la compattezza, il rigore, l'austerità di una plurale “voce sola” non stringerebbe la cavea in una morsa di commossa, empatica partecipazione?

Né posteri, né ardue sentenze. Solo fiduciosa attesa.

Carmelita Celi

17/5/2015

Le foto del servizio sono di Franca Centaro.