RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

Le angustie dell'impresario (e del regista)

 

Divertì Goethe al punto di provocargli un collasso da risate la prima volta che lo vide, ma L'impresario in angustie andato in scena al Cantiere internazionale d'arte di Montepulciano è tutto fuorché un'opera buffa. Inserendosi a gamba tesa nella scorrevolissima drammaturgia di Cimarosa e del suo librettista Giuseppe Diodati, la regista Caterina Panti Liberovici dà vita a una riscrittura ossimorica rispetto ai materiali di provenienza, con un'operazione tipicamente “da festival” che non sarebbe passata indenne in una normale stagione teatrale, ma che, in punto di diritto, potrebbe apparire congrua per un laboratorio come il Cantiere poliziano. Dunque, si tratti di necessità o provocazione, tanto più Cimarosa è limpido e aereo quanto più la Panti Liberovici realizza uno spettacolo livido e cupo. Tanto più l'opera affonda l'acceleratore nella farsa quanto più la regia intellettualizza e problematizza. Il backstage è stato spesso terreno caro al melodramma comico: e nel 1786 L'impresario in angustie lo seppe innervare con sperimentazioni strutturali (il tenore caricaturale, la parte di “amoroso” affidata a un basso buffo…), un epilogo – l'impresario pianta in asso la compagnia senza pagare nessuno – col senno di poi più da avanspettacolo («Bambole, non c'è una lira!») che da teatro lirico e una struttura “aperta”, che spinse già lo stesso Goethe, quando tradusse l'opera in tedesco, a trattarla da canovaccio piuttosto che da testo intangibile. Sotto questo profilo le libertà prese dalla Panti Liberovici hanno, dunque, più d'un precedente. Ma non è facile entrare in empatia con la macchina destrutturante qui messa in moto.

Innestando una fitta trama di dialoghi scritti ad hoc, dilatando a circa quaranta minuti in più di spettacolo una partitura che durerebbe un'ora e venti, e disgregando in due atti l'originario atto unico, L'impresario in angustie diventa una riflessione sul ruolo creativo del regista, sulla dialettica tra cristallizzazione dell'opera d'arte e vitalità della sua contingente esecuzione, sul sostanziale fallimento di chi oggi tenta di “fare cultura”. Cimarosa, l'opera buffa, forse il secolo dei Lumi in blocco sono realtà fossilizzate, sembra dire la Panti Liberovici: e quel luogo di desolazione che, all'alzarsi del sipario, è l'ammuffito palcoscenico popolato da figure ectoplasmiche mostra un'inequivocabile presa di distanza dal materiale drammatico cimarosiano. Energia intellettuale e incontaminatezza artistica dovrebbero essere invece insufflati dal logorroico regista (l'attore Cristian Maria Giammarini, chiamato a citare frasi di Strehler e Pirandello) e dalla muta danzatrice (Gal Fefferman): personaggi creati dalla drammaturgia della Panti Liberovici e, tuttavia, meno risolti delle simpatiche macchiette che popolano il libretto di Diodati. Anche perché, alla resa dei conti, questo regista appare più isterico che demiurgico e la danzatrice ha troppo poco spazio per motivare la sua presenza. Stando così le cose, pure i personaggi dell'opera mutano fisionomia: l'impresario non è il simpatico cialtrone di turno, ma un grassone ansioso e depresso che sembra uscito da un film del primo Woody Allen; il poetastro innamorato declamante in napoletano diventa un giovane intellettuale narcisista; la primadonna Fiordispina è la sola ad aspirare ancora all'arcaico mondo operistico; e forse non è un caso che spetti all'unica figura davvero comprimariale – il bieco Strabinio – di mettere il regista davanti al proprio fallimento. Ne sortisce un contrasto tra dettato musicale e movenze dei personaggi, una dialettica programmaticamente schizofrenica tra testo poetico e recitazione: il pensiero va a una Cenerentola rossiniana messa in scena a Spoleto una quarantina d'anni fa da Jean-Marie Simon, dove il rondò di giubilo della protagonista si trasformava in un'aria di ottenebramento mentale. E non si può che ammirare la naturalezza con cui il giovane mezzosoprano Silvia Alice Gianolla (Merlina) e il giovanissimo soprano Dioklea Hoxha (Fiordispina) riescono a cantare le loro arie esprimendo, scenicamente, una sofferenza psicologica e un patema isterico che non c'entrano nulla né con Cimarosa né con Diodati.

Se la sovrastruttura messa in moto dallo spettacolo non convince, la struttura è però migliore: l'impianto scenico di Sergio Mariotti e i costumi di Alessandra Garanzini sono evocativi e diacronici al punto giusto; e, a fronte di tante posticce citazioni di Strehler innestate nei dialoghi, quelle tele che si ricompongono in vele sono un coup de théâtre quello sì di marca strehleriana. Avere ottenuto sonorità ricamate e un fraseggio ora scattante ora cullante da un ensemble di giovanissimi come l'Orchestra Poliziana è, poi, uno di quei miracoli che accadono a Montepulciano, ma anche il marchio di fabbrica di un direttore eclettico e sensibile come Roland Böer, visibilmente complice con questa rivisitazione drammaturgica: gli si può solo rimproverare (non è un peccato veniale…) di avere consentito alla regista di smembrare il bellissimo quintetto – autentico “cuore” della partitura – in due parti, metà prima e metà dopo l'intervallo.

Del valore delle interpreti femminili si è già detto (lode pure alla brava caratterista Vittoria Licostini nei panni di Doralba). Sul fronte maschile, invece, la freschezza di questo cast quasi tutto under 30 rischia di tradursi in acerbità: almeno per le parti dell'impresario e del poeta, delle vecchie volpi di palcoscenico – magari anche in declino – sarebbero più acconce. Tuttavia le ottime potenzialità del baritono Francesco Samuele Venuti e del tenore Claudio Zazzaro sono già un dato di fatto, mentre a restare al di sotto dei desiderata del ruolo è proprio il protagonista Claudio Mugnaini: simpatia e volenterosità aiutano, ma non risolvono. Almeno per ora. Acconcia, per concludere, la scelta di affidare – dato l'ampliamento del ruolo con ampi innesti di dialogo recitato – la parte di Strabinio a un attore-cantante, più che a un cantante-attore, come l'istrionico e incisivo Stefano Bernardini.

Paolo Patrizi

20/7/2018

La foto del servizio è di Irene Trancossi.