RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 

 

Il Crociato bombardato

Aroldo torna a casa. E non solo dal punto di vista del libretto, cioè la storia di un crociato reduce dalla Terra Santa che, rientrando al tetto coniugale, scopre l'infedeltà della consorte (adulterio peraltro del tutto occasionale, circonfuso da un pentimento che fa di Mina uno dei personaggi più devastati dai sensi di colpa dell'intero melodramma romantico). Ora a Rimini – dove l'opera di Verdi nacque in piena stagione balneare, nell'agosto 1857, solennizzando la nascita del nuovo edificio teatrale cittadino – il ritorno è stato pure simbolico: questo Aroldo è la prima produzione autoctona, a fronte d'una manciata di spettacoli precedenti acquistati altrove, in un teatro che ha riaperto solo pochissimi anni fa (e il lockdown ha poi quasi subito richiuso) dopo un silenzio durato quindici lustri; e il fatto che quel teatro – oggi intitolato ad Amintore Galli – si sarebbe potuto già riaprire poco dopo i bombardamenti del 1943 da cui fu danneggiato, se la città non avesse scelto di concentrarsi su altre ricostruzioni e altre fonti di arricchimento, è una ferita che dovrebbe bruciare ancora in una collettività culturalmente consapevole. Questo andato in scena, pertanto, è proprio un Aroldo riminese, prima che verdiano: uno spettacolo in cui, al prezzo di modificare vari passaggi e frasi del libretto, la vicenda versificata da Piave dialoga con la storia della città, in una riscrittura drammaturgica che difficilmente verrà recepita dal pubblico di Ravenna, Modena e Piacenza, con cui l'allestimento è coprodotto.

Ne scaturisce una messinscena che fa i conti con la Storia: dal fascismo alle bombe alleate, dall'assordante silenzio postbellico romagnolo verso la cultura a quella pacificazione tra Aroldo e la moglie che si fa specchio della riconciliazione tra Rimini e il suo teatro (simbolizzata dall'innalzamento dell'antico sipario prima mostrato semidistrutto e, nel finale, miracolosamente restaurato). Dunque il protagonista, da crociato, diventa un reduce della guerra in Abissinia, anno 1936, con il fido Briano che si trasforma in un ascaro al suo seguito. Egberto è, invece, il podestà locale e il desiderio di lavare nel sangue l'onore della figlia porta le stimmate d'un fascistissimo maschilismo perbenista, anziché di quel verdianissimo impulso alla violenza paterna che troveremo in tanti altri papà baritoni. Infine, con un balzo temporale più cospicuo di quello previsto dal libretto, l'ultimo atto (l'unico che rappresentò un effettivo lavoro per Rimini, il resto essendo rimaneggiamento del precedente Stiffelio) ci porta al dicembre '43: e la tempesta evocata da Verdi in un mirabile tableau sinfonico-vocale sono proprio le bombe gettate sul teatro.

Insomma, uno spettacolo che vorrebbe parlare tanto al cuore quanto alla pancia. Peccato, invece, che sia tutto di testa. Forse anche perché, tra scenografi trasformati in registi e musicologi trasformati in drammaturghi, ci si sono messi in troppi (otto le professionalità coinvolte). Uno scenografo dall'onorata carriera come Edoardo Sanchi appronta la regia insieme a Emilio Sala, professore ordinario di drammaturgia musicale e autore della “riscrittura” di cui sopra, rinunciando però a firmare le scenografie – di fatto impalcature metalliche e tante sedie – qui affidate a Giulia Broschi. I costumi sono a quattro mani (Elisa Serpilli e Raffaella Giraldi), mentre dei video di Matteo Castiglioni, chiamati a rievocare la couleur locale fascista, si apprezza la professionalità e meno l'invasività. In mancanza d'una vera regia a trecentosessanta gradi, i movimenti scenici sono poi affidati a Isa Traversi: è di gran lunga il segmento migliore della parte visiva (molto bello lo svenimento del protagonista, congruo per l'uomo di chiesa Stiffelio e un po' assurdo per l'uomo d'arme Aroldo, qui risolto in un semplice inginocchiarsi, che prelude alla catarsi finale del perdono), ma pure il più penalizzato e meno intelligibile, poiché le luci di Nevio Cavina avvolgono tutto in una costante, fitta penombra.

In palcoscenico s'impone la fisicità dolce e ansiosa (ancora un ottimo esito del lavoro della Traversi) di Lidia Fridman, il suo timbro nobile e scuro, il fraseggio palpitante ma racchiuso nel bozzolo d'una dignità severa: la sua Mina peccatrice per caso, traghettata dalla spensieratezza gioventù alla consapevolezza dell'età adulta proprio in virtù della sua caduta, entra di diritto nella galleria dei più significativi ritratti femminili verdiani. Il comparto maschile appare meno a fuoco, con un protagonista (Antonio Corianò) più voluminoso che squillante e di taglia vocale adeguata semmai per il ruolo del secondo tenore, il seduttore Godvino, qui professionalmente amministrato da Cristiano Olivieri. Avrebbe maggior contezza della parola scenica verdiana il baritono Michele Govi: la voce, però, è troppo esile e pallida per rispondere a tutte le intenzioni. Mentre il basso Adriano Gramigni è corretto ma un po' impersonale nei panni di Briano, personaggio che nel transito da Stiffelio ad Aroldo lievita d'importanza e in questa regia assume sfaccettature ancor maggiori. Quanto al prologo – una trovata della drammaturgia di Sala – affidato a un'icona romagnola come l'attore Ivano Marescotti, che arriva in bicicletta e appronta un sermoncino su Rimini e Aroldo, dà l'idea di una lettura a prima vista: ed è imbarazzante vederlo costretto a sbirciare il foglio che ha con sé quando deve citare il nome di Francesco Maria Piave.

Anche il direttore, al pari di molti degli autori dello spettacolo, è riminese. Purtroppo proprio Manlio Benzi è l'anello più debole d'una catena già fragile del suo. Collocata in platea causa norme di distanziamento (il pubblico stava nei palchi), l'Orchestra Cherubini ha spesso coperto i cantanti non solo per la dislocazione infelice, ma per la tendenziale inflessibilità di braccio del suo capitano. Ne scaturisce una lettura quasi monolitica negli stacchi indugianti e nelle sonorità massicce, dove passa inavvertita perfino l'interazione tra il tempo lento iniziale della sinfonia e il successivo Allegro. E accettar d'interpolare – tra fine del primo e inizio del secondo atto – la registrazione d'un discorso del duce è cosa da yes man dei registi, più che da vero concertatore.

Paolo Patrizi

6/9/2021

La foto del servizio è di Elena Morosetti.