RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


Jedermann, la tragedia di Ognuno

Vivere è difficile ma ancor più difficile è morire

Salisburgo. Domplatz alle cinque della sera.

La mitica, austera e compiacente piazza del Duomo di Salisburgo – che ospita la più antica cattedrale barocca “dietro” le Alpi – vanta già una platea stracolma, come sempre, non rimedierebbe un posto neanche una spilla da balia. Il sole, prepotente e caldissimo, inviterebbe al sollazzo e all'insofferenza ma il silenzio è assoluto, quasi religioso, come ad una Messa.

E quello è Jedermann di Hugo von Hofmannsthal, il morality play originariamente olandese poi sbarcato in Inghilterra e ribattezzato Everyman nel 1490 e nel 1911 ricomposto dal poeta drammatico di Elektra, sodale insostituibile di Richard Strauss con cui nel 1920 avrebbe inventato il Festival di Salisburgo non senza la terza anima vibrante del Festspiele, il regista Max Reinhardt. E fu proprio quest'ultimo a nominare la Domplatz come unico luogo deputato di Jedermann che mise in scena per la prima volta in assoluto nell'anno di nascita del Festival ed in quello a seguire e poi nelle edizioni dal 1926 al 1937. E da allora, Jedermann è lo spettacolo culto, immancabile ad ogni edizione e per l'intera durata del Festival, quest'anno dal 18 luglio al 31 agosto, ambitissimo dal pubblico che, mai pago, trabocca sera dopo sera.

Jedermann o la tragedia di Ognuno. Più che un dissoluto, la quintessenza del mercante (un po' sul modello dell'arrogante Merchant dei Canterbury Tales di Chaucer) e del mercanteggiare come Weltanschauung, noncurante dello spirito e della morale, pronto a pagarsi qualunque cosa: amicizie, amori, donnine allegre e financo la morte. E se quest'ultima gli chiede il “resoconto” da parte di Dio, lui pensa che si tratti di un concreto, banalissimo libro dei conti.

Sicché se Jedermann non capisce la lingua dell'Altissimo, l'Altissimo non gli concederà di morire in pace prima di superare prove acuminate che gli faranno invocare la tomba come unica, vera liberazione.

Nella Domplatz, prima che risuoni di richiami sinistri e tonanti e con voci sempre diverse che dicono lo stesso nome, “Je-der-mann!”, il silenzio è interrotto da una banda quasi dixieland, il Jedermann Ensemble, che ha già costeggiato la piazza a sinistra mentre, irridente e beffardo, imbocca l'arcata che lo porterà sul palco, sotto gli occhi increduli di tantissimo pubblico “ufficioso” e assiepato dietro le transenne. Un po' musica de la rua e molto wedding&funeral band - e quale corte dei miracoli appare! – l'Ensemble travolge tutti in un ballo in maschera che, come quell'altro di verdiana memoria, non promette nulla di buono. E' turbinìo di teschi, diavoloni, donnine, maschere esagerate e paurose e c'è persino Jedermann con la “Mutti”, la madre (Julia Gschnitzer, deliziosamente autorevole nei suoi 80 anni) in abito di raso bianco che la fa tanto nonna bergmaniana di Fanny&Alexander.

Uomini in bombetta urlano dentro a finti megafoni a mo' di banner medievali mentre, alle loro spalle, il palcoscenico “ritagliato” sul sagrato del Duomo scopre i piccoli plastici di un'ideale (dannata?) città del mondo.

La comunità sfoggia i costumi più diversi (Olivera Gajic), sfrenati, coloratissimi e tetri ma la predominanza richiama il crepuscolo degli Anni Venti.

Sono già le sei ma la palla di fuoco non vuol sentirne d'essere più clemente: siamo tutti trafitti da un raggio di sole ma non è subito sera, il meridium resta sovrano assoluto delle scalinate. Jedermann ha il volto madido e voce, corpo ed anima di Cornelius Obonya (classe 1969) che al ruolo - già esclusiva di grandi della scena tedesca come Curd Jürgens, Maximilian Schell, Klaus Maria Brandauer – dà connotazioni di sofferta, disorientata contemporaneità, a tratti vicino (con le dovute, devote differenze, s'intende!) ad una species attoriale alla Philip Seymour Hoffmann a cui l'accomunano le forme rotonde.

Jedermann comincerà a temere per la sua vita – ma anche per la sua morte se non altro perché questa si farà dolorosamente attendere – quando un'austriaca foresta di Birnam fatta di uomini e cose prenderà a muoversi tra sviolinate e cinguettìi. Ma tutto intorno è ancora festa. Anzi, festino. Sotto al proscenio – e sotto gli occhi degli spettatori delle prime file – è un'impazzita girandola di ciclisti, in testa Buhlschaft (una scatenata, rossocrinita Brigitte Hobmeier) dinanzi ad una tavolata da Caena Trimalcionis. Di lì a poco si lanceranno – lui e lei – in un'esilarante ma non ostentata copulazione davanti ai commensali solo che, prima dell'estasi, Jedermann crolla ubriaco sul grembo di lei.

“Je-der-mann!!!”. L'incubo urlato è cominciato. Ha un'eco impietosa e sfuggente, toni e tonalità che cambiano di continuo. E' il summoning, la convocazione del Giudice Supremo.

La Morte, intanto, ha fatto della grande tovaglia degli ignari bagordi il suo mantello: a sinistra terrorizza Buhlschaft che ad arte cade all'indietro su un letto di fiori, a destra porta già in braccio una fanciulla appena passata a miglior vita, quasi come fa il monatto con Cecilia, nei Promessi Sposi.

Ma Jedermann sèguita a non (voler) capire. Pretende in scena un grosso baule di ricchezze ma in realtà ne esce solo una sorta di inquisitore con mascherone, braccia e gambe finte da far paura. Poi, però, il faccione animalesco si apre come la bocca di un ippopotamo e ne vien fuori una sorta di gran giurì in carne ed ossa che defeca monete d'oro e sputa sentenze a fasi alterne.

E' danza della morte contro la Morte: la Compagnia, Jedermann al centro, si lancia in una catturante coreografia (Jessse J. Perez) che oggi diremmo vagamente gangnam. E suda sette camicie, Jedermann, sette quanti sono i peccati capitali di Ognuno. Da dietro le quinte, poi, i fiati dell'Ensemble intonano una marcia che nella prima frase musicale cita chiaramente quella Funebre di Chopin.

Ma non è ancora l'ora di morire. E' l'ora del Diavolo, piuttosto. Corna caprine e coda cavallina, Simon Schwarz (in un ruolo che non troppo tempo fa è stato pezzo forte di un ottimo Tobias Moretti, molto più che Commissario Rex) si arrampica proditoriamente su un pannellone al centro della scena, mentre, ai lati, due angioletti scendono e salgono come i cavallini delle giostre d'antan. Ed è di nuovo danza, stavolta di Diavoli, a metà tra tap dance e ballo di gruppo mentre, miracolo!, soffia una brezzolina fresca che per Jedermann potrebbe significare che la fredda Morte, Dio la benedica, si sia decisa ad accoglierlo. E, sia detto per inciso, sul palcoscenico della Domplatz c'è sempre stata una strana, misteriosa complicità tra le luci del giorno e Jedermann: quando lo spettacolo aveva inizio alle 19, infatti, c'era un momento topico del morality play - lui s'avviava alla morte ma non lei che si rifiutava di seguirlo – in cui, sul palco, Jedermann si trovava già all'ombra mentre Buhlschaft era ancora al sole.

Ed è allora, dunque, cioè ora, che la Morte - il temibile, plastico Peter Lohmeyer - incede lunga e bianchissima come il velo che stenderà sul corpo di Jedermann, finalmente senza vita. A spezzare quel biancore inerte,saranno le manciate di terra che ciascuno getta su Ognuno.

Jedermann non è più visibile agli umani, insomma, solo il Dio della punizione può vederlo: gli altri gli fanno da paravento, in una chorus line muta e compunta. Ma, spezzando le righe, Ognuno ricompare a tradimento per ringraziare i “fedeli” della platea, che dire osannante è dir poco.

Merito del “classico” ma anche della regìa anglo-americana - Brian Mertes e Julian Crouch, quest'ultimo autore delle maschere - che aveva messo sul chi vive i devoti di germanistica o di lingua tedesca tout court gelosi del loro pezzo da collezione, e che ha invece licenziato uno spettacolo agilissimo, turlupinante e serioso quanto basta, senza toni ieratici e indici alzati da “Verrà un giorno” (saccheggiamo di nuovo Manzoni e ce ne scusiamo con l'interessato). Della sacra rappresentazione, pertanto, questo Jedermann conserva giustamente il profano, senza contare che poco “sacro” davvero, per sua natura, era ed è il morality play, fluida e accattivante manovra della Chiesa, mediatica ante litteram, per ammonire, intimidire, terrorizzare – sul Bene e sul Male ma a suo uso e consumo - la collettività di turno, più o meno credente.

Perciò Jedermann e gli altri se andranno via tutti insieme, alla fine, così come sono venuti e da lì dove sono venuti, ballando e saltellando. La band, intanto, questa volta a ritmo in odore di Underground di Kusturica-Bregovic, li tallona a vista.

Carmelita Celi

11/8/2014