RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


Perché mai proprio le trombe?

In piedi, in silenzio per un minuto, poco prima di dare inizio al concerto: così Francesca Gentile Camerana, direttore artistico del Lingotto, ha chiesto al pubblico, mercoledì 22 gennaio 2014, di onorare la memoria di Claudio Abbado, che il 6 maggio 1994 inaugurava l'auditorium Giovanni Agnelli di Torino con la Nona Sinfonia di Mahler (e il fatto che Myung-Whun Chung, vent'anni dopo, abbia aperto questa stagione con lo stesso brano si carica di un significato oltremodo premonitore, quasi presago della prossima scomparsa: ma sono considerazioni che possono scaturire, purtroppo, solo da una visione retrospettiva degli eventi): un ricordo doveroso per colui che aveva fortemente voluto la costruzione della struttura, progettata da Renzo Piano – ancora oggi uno dei fiori all'occhiello della vita musicale torinese – che in occasione del concerto di cui riferiamo ha ospitato la Deutsche Kammerphilarmonie Bremen, diretta da Mikhail Pletnev, e il pianista Rafal Blechacz. In programma la Settima Sinfonia di Beethoven e il Secondo Concerto di Chopin: ed è proprio col concerto di Chopin che la serata ha preso avvio (dopo un misunderstanding tra direttore, pianista, forse indecisi sull'ordine di esecuzione dei brani).

L'introduzione orchestrale, pur cercando di restare fedele all'indicazione Maestoso, è a tratti priva di mordente, un po' troppo lenta, tuttavia prepara degnamente l'entrata del solista, che, con gesto imperioso, rispetta il fortissimo (accentato) indicato sullo spartito. L'esecuzione procede sicura, la sintassi delle frasi musicali è scandita con precisione. Si sarebbe forse desiderata un po' più di morbidezza nelle volate leggere tipiche dello stile chopiniano, che faceva del rubato la sua legge. Intendiamoci: la resa di ogni singola nota è precisa, intelligibile, nei momenti meno concitati sembra quasi giocare con la melodia, l'esecuzione è pulita, come una delicata cascata di perle su un pavimento, ma talvolta questa precisione può risultare eccessiva nell'interpretazione di un compositore vaporoso come Chopin.

Il secondo intervento dell'orchestra migliora quanto ad incisività, anche se le trombe e i corni sono mantenuti costantemente in primo piano (cosa che non viene chiesta in partitura). Notevole invece la chiusa di questo passaggio ad opera del fagotto, che entra morbidamente e “poco ritenuto” (come da indicazione) in dialogo col solista nella sezione più languida del primo movimento, cedendo poi il passo a flauto e oboe, altrettanto delicati. Ma il terzo intervento orchestrale fa brillare di nuovo troppo le trombe, che coprono il tutti conclusivo.

Decisamente meglio la conduzione del Larghetto, con gli archi mantenuti compatti e levigati, e dove Blechacz ci trasporta in alto, nelle sfere eteree della delicatezza, rendendo ali di farfalla i passaggi dove più si esplica quella “variazione ornamentale” che fa di Chopin (e in particolare del primo Chopin) il «dolce e armonioso genio» che Liszt descrive nella biografia. Anche quando l'atmosfera si fa più tesa, quando il discorso musicale viene ad assomigliare maggiormente ad un recitativo d'opera, il tremolo degli archi resta fitto e ben tenuto (ma avremmo fatto a meno dei contrabbassi troppo marcati).

L'Allegro vivace è eseguito in tempo giusto. Blechacz rende adeguatamente la concitazione dei passaggi più densi e virtuosistici, ma trova difficoltà ad imporsi sull'orchestra, che spesso prevarica. Al segnale dei corni, però, quando la coda chiama a raccolta tutte le energie residue del solista, il piglio si fa più vivo e pianista e orchestra giungono ad una luminosa conclusione che fa applaudire generosamente il pubblico. A tale entusiasmo Blechacz risponde con due fuori programma entrambi chopiniani: il Valzer brillante in la minore Op. 34 n. 2 (che di brillante non ha nulla, ed è anzi una pagina intrisa di spleen romantico, ma all'epoca della pubblicazione l'editore lo corredò di questo aggettivo per renderlo più accattivante, secondo le leggi crudeli del marketing) e il brevissimo Preludio Op. 28 n. 7 in la maggiore, che, fino all'arrivo dei Sechs kleine Klavierstücke di Schönberg deteneva il record del brano più breve mai scritto: «Si tratta in realtà di una mazurca eseguita molto au ralenti, così come usava fare anni fa René Clair in certi suoi films» (Casella). All'esecuzione un po' corriva del Valzer (che Chopin prescrive di eseguire Lento…), risponde una migliore interpretazione del Preludio: in entrambe le pagine, la legatura avant tout si impone come la cifra distintiva di Blechacz.

Pletnev e Beethoven: un rapporto contrastato. Così potrebbe essere riassunta l'esecuzione della Settima. Ad alcuni passaggi ben riusciti se ne sono alternati altri che hanno lasciato interdetto lo scrivente e parte del pubblico. Non ci è parso giustificato il cambio delle trombe rispetto alla prima parte del concerto, passate da trombe a pistoni a trombe barocche (cosa che ha portato a rimarcare vieppiù, sotto la direzione di Pletnev, il timbro già squillante di questo strumento), e ciò per due motivi: primo, se l'interesse fosse stato quello di un'esecuzione filologica, non ci si sarebbe dovuti limitare alle trombe come strumenti d'epoca (perché mai proprio le trombe?). Secondo: anche ammettendo che all'epoca di Beethoven fossero ancora diffuse le trombe barocche, si tenga presente che Anton Wedinger, per il quale Haydn scrisse il Concerto per tromba, aveva già brevettato circa una decina d'anni prima della Settima il sistema di fori che permetteva allo strumento di eseguire le scale cromatiche (e Beethoven chiede delle normalissime trombe in Re).

Il risultato di questa scelta è stato il costante prevalere degli ottoni (corni compresi) nella sonorità della sinfonia. In scritture come quella beethoveniana e mozartiana, che tanto devono alle scuole precedenti, questi strumenti sono usati come rinforzo armonico, non per condurre le parti melodiche (salvo eccezioni): ne consegue che spesso si trovano a tenere dei pedali d'armonia che è bene rimangano nascosti nelle pieghe dell'orchestrazione. Il rischio è far emergere dal tessuto orchestrale lunghe note tenute (apparentemente senza motivo) a scapito della melodia, cosa che è puntualmente successa ad esempio nell'Assai meno presto del terzo movimento (che tra l'altro non ci è sembrato così rallentato come l'indicazione beethoveniana comanda).

Il primo movimento si presenta lavorato in alcuni punti (ad esempio nella transizione fra l'introduzione e il Vivace, ben ritenuto) e più sbrigativo in altri (come in alcune fasi dello sviluppo). Particolare attenzione alle dinamiche è stata riservata all'Allegretto, rispettando i piano, i forte e i crescendo: questo ha permesso di distinguere bene le diverse linee melodiche che, come pennellate successive, si sono stratificate inizialmente nella sezione degli archi e poi a quella dei fiati, utile ad un ascolto di tipo didattico anche nella sezione fugata centrale. Il ritmo complessivo, però, pare stanco, trascinato, senza nerbo.

Più vivo il terzo movimento, nel pieno rispetto del tempo indicato da Beethoven. Ben diretto, nonostante qualche imperfezione; apprezzabile il cambio di dinamiche quando, da partitura, dal fortissimo chiesto alla prima esposizione del Presto, si passa al pianissimo della seconda, “in punta di bacchetta”, per tornare al fortissimo della terza. Non rallentando a dovere l'Assai meno presto, però, viene a perdersi la componente di maestosità che si contrappone al moto incalzante dello Scherzo. La coda, infine, inizialmente ritenuta più del dovuto, conclude accelerando di colpo le ultime battute.

L'Allegro con brio finale è una galoppata di frenesia. Il tempo è corretto, anche se la rimarcata presenza degli ottoni è ancora il punto debole della direzione. Troppo insistiti anche i timpani. Nonostante ciò, l'inscalfibile maestria del brano porta il pubblico ad un entusiasmo trascinante.

Tale entusiasmo trova un ringraziamento nell'encore con cui il concerto si chiude: l'Air di Bach tratta dalla Suite orchestrale in re maggiore n. 2 BWV 1068. In questa lettura nulla è lasciato al caso, l'esecuzione è perfetta, ciascuna linea melodica è nettamente definita (e si sa quanto sia importante seguire la polifonia per poter apprezzare Bach!). A conti fatti, è forse il brano meglio eseguito della serata. Ma ciò non deve stupire: la Deutsche Kammerphilarmonie Bremen è un'orchestra da camera, e si trova più a suo agio nel repertorio cameristico.

Siamo abituati ad una figura di Beethoven volitiva, granitica, invincibile: e questo ci viene restituito da diversi brani della sua produzione. Talvolta calcare la mano nella direzione di certi passaggi può rivelarsi vincente, ma l'eccesso continuo porta ad un appesantimento generale piuttosto fuori luogo. La Settima è, per dirla con Wagner, «l'apoteosi della danza»: e la danza è prima di tutto leggerezza.

Christian Speranza

26/1/2014

Le foto del servizio sono di Pasquale Juzzolino.