RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


New York

Visita al MET 2

Mi riferirò adesso ai due ultimi spettacoli visti al Met, entrambi di repertorio ‘slavo', molto meno frequentato qui di solito (tranne il Boris, l'Oneguin e La dama di picche).

4 Febbraio: Rusalka è solo di recente entrata (e vedremo se e quanto continuerà) a far parte del repertorio più o meno ‘regolare' del Teatro e solo grazie alla presenza di Renée Fleming, che è sempre l'ondina per eccellenza della nostra epoca (e da quasi vent'anni, che si dice presto) con una voce bellissima e un'espressività assolutamente uniche per la parte e non è da stupire quindi il trionfo che ha avuto, come sempre e dovunque abbia cantato la protagonista di Dvorak). Non è facile trovare un principe allo stesso livello ma qui si è avuta la fortuna del canto e della presenza scenica contemporaneamente eleganti e appassionati di un tenore quale Piotr Beczala, che non solo brillava negli acuti ma faceva sfoggio di una mezza voce impressionante (vedi scena finale). Emily Magee si presentava per la prima volta sulla ribalta e la sua principessa straniera risultava superiore a quanto di recente le ho sentito, sebbene la voce si faccia sempre più metallica man mano che sale. John Relyea era il Vodnik o spirito dell'acqua: non ha un grave straordinario e l'acuto non sempre è facile ma in buona misura il personaggio c'era. Dolora Zajick veniva sostituita all'ultimo minuto da Mary Phillips, un mezzosoprano corretto ma senza grande interesse nella difficile parte della strega. Molto buone le tre ondine, e lo stesso va anche detto di Julie Boulianne nel ruolo travestito dell'aiuto cuoco, del cacciatore di Alexey Lavrov e del guardacaccia di Vladimir Chmelo. La vecchia produzione, ovviamente appartenente a una concezione estetica diversa da quella di moda oggi, ma non per questo da buttare, di Otto Schenk lasciava spazio alla personalità degli interpreti e destava gli applausi dei presenti in alcuni momenti, ‘colpevole' la bellezza delle scene di Günther Scneider-Siemssen. La direzione dell'amatissimo Yannick Nézet-Seguin (che negli stessi giorni offriva un concerto di grande successo con l'Orchestra di Filadelfia e Radu Lupu, con autori come Dvorak, Smetana e Bartok) è stata la più brillante di quante ho ascoltate questa volta, anche se in qualche momento la tentazione del ‘sinfonismo' si è fatta notar, ma è ben comprensibile se si pensa all'età del maestro, al carattere della partitura e alla splendida orchestra del Teatro. Corretto il coro e grande affluenza di pubblico.

6 Febbraio: Il Principe Igor è una delle nuove produzioni della presente stagione e questo era il giorno della prima. Come sempre quando la messa in scena viene affidata a Dmitri Tcherniakov, che si presentava in quest'occasione per la prima volta al Met, abbiamo avuto successo e polemica insieme: l'unanimità, sempre difficile, con lui è impossibile. I ‘tagli', stabiliti d'accordo con Gianandrea Noseda, a cominciare della stessa sinfonia, cercavano di sopprimere tutte le ‘interferenze' di Glazunov e di Rimski, con il risultato che l'opera sembrava più irregolare che in altre riesumazioni: il ricupero della musica di Borodin ‘scartata' dai colleghi, e in particolare del grande monologo del protagonista nell'ultimo atto, è l'aspetto più interessante, con un evidente colore di Mussorgski – l' orchestrazione addizionale è di Pavel Smelkov. Non sembra troppo giustificato rovesciare l'ordine convenzionale degli atti (il primo diventa secondo e viceversa) malgrado l'argomento che Borodin avrebbe voluto così; in ogni caso la transizione fra prologo e primo atto ‘nuovo' – quello polovtsiano – è comunque molto più brusco adesso e l'inizio del secondo con le frasi di Yaroslavna risulta un po' ridondante. A quanto sembra Borodin sarebbe più introspettivo e ‘profondo' (nel riferimento all'aria iniziale del protagonista come ‘tradizionale' si avverte un tono di superiorità poco accettabile) di quanto si credeva fino a questo momento, ma risulta difficile accettare che un coro di vittoria russa in un'opera che ha come base un poema epico medievale debba essere interpretato, dal punto di vista vocale e scenico, in modo deliberatamente svogliato, quasi triste. Se buona è l'idea di seppellire letteralmente il vinto principe in un prato di papaveri (voluttuosi polovtsiani!), drammaticamente non convince che poi si presentino gli altri personaggi a cantare le loro arie e perfino i ballerini per le celebri danze – una coreografia improponibile di Itzik Galili, anch'egli al suo debutto qui – mentre negli spezzoni video che vengono proiettati in bianco e nero si vede il protagonista ferito e angosciato. Molto meglio invece i due atti posteriori nella città di Putivl. Noseda dirigeva con molto fervore e qui si aveva senz'altro una vera interpretazione, ma come sempre questo maestro risulta più interessante nei momenti drammatici che in quelli più lirici. Il protagonista di Ildar Abdrazakov era magnifico, malgrado sia da preferire un baritono a un basso cantante per la parte. Si presentavano il tenore Sergey Semishkur (Vladimir), bella voce, alquanto leggera e di timbro un po' bianco, e Oksana Dyka (più interessante qui che nel repertorio italiano, ma sempre con tendenza a crescere e un'emissione sempre in forte e stridente negli acuti) come Yaroslavana. Anita Rachvelishvili è stata una Konchakovna molto buono, di adeguato colore scuro seppure con qualche traccia di vibrato e un'interpretazione piuttosto eccessiva. Il Kan di Stefan Kocán presentava, come al solito, un grave insufficiente e un acuto rigido, e sarebbe stato senz'altro preferibile ascoltare nella parte il veterano Vladimir Ognovenko, che cantava benissimo Skula (non così bene il suo compagno Yeroshka, il tenore Andrei Popov). Michail Petrenko era un Galitski di tutto rispetto ma ci si poteva aspettare più di lui, come se la voce avesse bisogno di trovare il suo colore esatto. Un altro debutto, corretto, era quello di Michail Vekua nei panni di Orlov. Il coro questa volta è stato niente meno che memorabile e l'orchestra rispondeva con un suono sfarzoso.

Jorge Binaghi

12/2/2014

Le foto del servizio sono di Ken Howard e Cory Weaver.