RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

Un suggestivo e travolgente Macbeth

al Teatro Massimo di Palermo

Il Macbeth di William Shakespeare è sicuramente fra le tragedie più inquietanti e perturbanti di tutta la cultura occidentale: rappresenta infatti in modo altamente significativo e pregnante la sfrenata ambizione di dominio e di potere che agita il cuore umano. Così la coppia iniqua che non indulge neanche di fronte al delitto pur di ascendere al trono diventa simbolo del male assoluto, di coloro che pur di raggiungere un fine abdicano sia di fronte alla propria coscienza sia di fronte ad ogni remora etica.

Tale tragedia ha avuto poi la ventura di incontrare, nella riduzione prima di Francesco Maria Piave per la prima rappresentazione avvenuta al teatro La Pergola di Firenze il 14 marzo del 1847 e poi di Andrea Maffei per l'edizione rimaneggiata del 21 aprile 1865 al Théâtre Lyrique di Parigi, la musica di Giuseppe Verdi, che riuscì mirabilmente e superbamente a dar voce a tutte quelle sfaccettature logiche, psicologiche, fisiche e metafisiche che agitano il cuore di ogni usurpatore e tiranno che per ottenere il potere ha sempre avuto la necessità di calpestare e annientare affetti, sentimenti, amicizie e perfino esseri umani.

L'edizione presentata al Teatro Massimo di Palermo dal 21 al 29 gennaio, in coproduzione con il Teatro Regio di Torino e con il Macerata Opera Festival, ha evidenziato delle prerogative, peculiarità e tipicità di altissimo livello drammaturgico, musicale ed estetico. In primis va sottolineato che la regia di Emma Dante ha davvero saputo cogliere il cuore del melodramma e la complessa personalità dei protagonisti in tutte le loro sfaccettature più ambigue, distorte e contorte. Inoltre ha saputo anche sottolinearne l'aspetto magico, misterico e prodigioso con suggestive danze di streghe e sabba diabolici di fortissimo impatto emotivo. L'abile ed estrosa regista siciliana ha scatenato la sua creatività riuscendo a cogliere appieno ed a trasfondere verso la platea il vero dramma dei protagonisti, la loro deprimente solitudine, la loro estrema ambizione, la loro degradante desolazione. Sì, perché il potere non darà a Lady Mabeth l'affetto, l'amore e la maternità, e d'altro canto non darà a suo marito la gloria, l'amicizia, l'onore. L'estrema solitudine del re e del suo delirio di potere verrà congruentemente espressa dal suo rimanere assiso al colmo di una scala solo ed assolutamente isolato dagli altri sudditi.

Stupenda la trovata di cancellate a forma di corona che scendono dall'alto e che intrappolano inesorabilmente i protagonisti. Più aumenta il loro potere, più restano ingabbiati nel loro estremo solipsismo che porterà la donna alla follia ed il consorte ad una ingloriosa morte. Unica nostra perplessità è rimasta la scena settima dell'atto quarto dove la foresta di Birnam viene rappresentata da una selva di fichi d'india che anziché la Scozia richiama la Sicilia. Tuttavia per la regista pare che essa sia un luogo simbolico che intende raccontare la natura selvaggia che prende il sopravvento sull'uomo. Forse un'ambientazione che intende accostare a quello di Macbeth lo strapotere omicida mafioso? Da segnalare infine la spettacolare esibizione del cadavere di Duncan durante il finale dell'atto primo, quasi un commovente e toccante tableau vivant della Deposizione del Cristo morto.

Le seducenti e scioccanti scene di Carmine Maringola hanno accentuato ed amplificato la visione registica imponendo tale prospettiva di angosciante delirio, riuscendo a ben coordinarsi e combinarsi con i sontuosi e sfarzosi costumi di Vanessa Sannino e con le spettacolari e sorprendenti coreografie di Manuela Lo Sicco, che assieme alle cupe ed allusive luci composte da Cristian Zucaro sottolineavano l'arcana aura di magie, incantesimi e sortilegi che contornano e avviluppano l'intera trama.

Il soprano Anna Pirozzi ha definito il personaggio in tutta la sua tragica iattanza malefica, sia da un punto di vista drammaturgico che vocale, definendone anche musicalmente i tratti di perfida cattiveria da un lato e di atroce, acre tormento dall'altro. Si è mossa a suo agio nell'impervia tessitura mettendo in campo una dizione nitida e limpida, splendidi legati, sicuri e rifiniti filati, per non parlare del suo preciso canto sul fiato e della perfetta presa di voce; davvero ragguardevoli le sue interpretazioni dell'aria “Vieni! T'affretta!” con relativa cabaletta e “La luce langue, il faro spegnesi”.

Il baritono Giuseppe Altomare, fin dal suo apparire sullo scheletro semovente di un cavallo, fosca rappresentazione della morte e della devastazione che Macbeth recherà alla Scozia, affrontava la sua parte con una voce bronzea e fortemente timbrata, esibendo una tecnica solida unita ad una innata musicalità. Da notare che l'edizione proposta al Massimo di Palermo ha suggestivamente esibito entrambe le scene finali, sia della prima edizione fiorentina che della seconda edizione parigina, ottenendo a nostro avviso un risultato brillante proprio da un punto di vista drammaturgico. Infatti nella prima versione il protagonista eponimo viene ucciso in scena con un effetto cruento e sanguinoso, mentre nella seconda la sua morte viene semplicemente annunciata e alla domanda di Malcolm “…ove s'è fitto l'usurpator?” Macduff risponde: “Colà da me trafitto”. Ma è proprio la prima edizione che contiene la splendida aria della morte del protagonista “Mal per me che m'affidai”, una pagina di intensa e vibrante bellezza cantata davvero con elevato sentimento da Altomare, applauditissimo dal folto pubblico intervenuto.

Il basso Marko Mimica (Banco) si è esibito in una commovente interpretazione dell'aria “Come dal ciel precipita” mettendo in campo stentorea possanza vocale e felice tecnica esecutiva. Prestante e vocalmente efficace pure il Macduff di Vincenzo Costanzo in “Ah la paterna mano” cantata davvero in modo struggente e con traboccante passionalità, come anche si è distinto per la sua prestazione Manuel Pierattelli (Malcolm).

L'agguerrita e florida orchestra del Teatro Massimo di Palermo è stata condotta con equilibrio fonico perfetto da Gabriele Ferro, che ha saputo imprimere alla partitura un colore davvero sinistro, tenebroso e fosco, riuscendo anche a cesellare e definire ogni più piccolo particolare agogico e dinamico in tutta la sua intensa e significativa icasticità. Il suo gesto morbido ma preciso, i suoi pianissimi lievi ma sempre chiari e nettamente udibili, i suoi fortissimi penetranti e vellutati ma mai assordanti o debordanti hanno saputo scolpire degnamente i caratteri della vicenda, rispettando in modo puntuale le indicazioni e le intenzioni del grande compositore di Busseto. Molto efficace anche la resa del coro, preparato con puntiglio da Piero Monti, e del magnifico corpo di ballo del Teatro Massimo di Palermo.

Giovanni Pasqualino

26/1/2017

Le foto del servizio sono di Rosellina Garbo.