RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

L'uomo solo al potere

Il potere come delirio che tutto annienta e riduce a sé: è questa l'impressione che si ricava dall'ottima regia di Luca De Fusco per il Macbeth andato in scena allo Stabile di Catania il 7 dicembre (con repliche fino al 18), dove la storia del feroce usurpatore di Scozia viene rivisitata in un'ottica onirico-visionaria in cui tutto coagula intorno alla figure dei due coniugi. Né Macbeth né la sua Lady sono dei cattivi a tutto tondo, più o meno come potrebbero esserlo dei killers contemporanei: sono persone che, ad un certo punto, nel corso della loro esistenza, vengono casualmente a contatto con la tentazione del potere. E se forse è vero, come disse qualcuno un tempo, che “il potere logora chi non ce l'ha”, è anche vero però che la sanguinosa ascesa verso di esso non avviene di colpo, da un punto di vista psicologico, ma erodendo pian piano tutte le difese mentali, in un climax di delirio paranoide dove tutte le componenti dell'animo umano collassano all'interno di quel gigantesco buco nero che è la pulsione principale. Così acquista un senso, nella regia di De Fusco, la camera da letto-sarcofago posta al centro della scena, l'estasi di potere di Lady Macbeth che diviene estasi erotica all'apparire del consorte, e che dell'erotismo si serve per irretirlo fino al delitto; così si spiegano le proiezioni-specchio, che nei monologhi e nei dialoghi fondamentali rimandano ingranditi i volti degli attori, quasi in un dialogare visivo tra la persona in carne e ossa e la sua proiezione psichica.

E questo potere come delirio paranoide non poteva non colpire in tali bui tempi della nostra Italia, complice anche il testo shakespeariano che ci conduce lentamente nei meandri della psiche di Macbeth, dai suoi dubbi iniziali all'assassinio di Duncan, e poi a tutto il sangue che ne segue, terribile monito circa le conseguenze di quell'uomo solo al comando, che proprio dalla sua solitudine trae nuovi spunti per la sua orgia di potere, unico fine che rimane ad un'esistenza ormai privata di ogni autentico legame umano.

La regia di De Fusco, sin dalle prime battute dal dramma, ma lo si capiva alla fine, puntava proprio su questa totale rescissione dai legami umani, sia di Macbeth che della sua Lady: l'incontro con le streghe, ambientato in una landa cupa, ricreata dalle scene di Marta Crisolini Malatesta e dalle installazioni video di Alessandro Papa, queste ultime dominate da un'immensa civetta bianca le cui ali spiegate parevano avvolgere tutto il palcoscenico, assumeva più il sapore di un sogno, o meglio di un incubo, con le figure delle streghe tinte di un bianco perlescente, con i loro visi semicelati da maschere che ricordavano le statue velate del Principe di Sansevero, con le loro movenze serpentine, con un'unica voce amplificata che parlava per tutte e tre.

Unica realtà in questo vasto affresco onirico erano le scene in cui agivano il re, Macduff, Banquo e tutti gli altri condottieri, scene in cui anche la recitazione di Luca Lazzareschi, nel ruolo eponimo, calava volutamente di tono, attestandosi ora su una colloquialità dimessa, ora sulle formule di rito e di cortesia recitate meccanicamente, additando nel Macbeth del delirio l'unico vero personaggio, dove la voce si piegava magistralmente a tutte le inflessioni, dove Lazzareschi riusciva a trovare pause e ritmi di enorme effetto, rendendo in modo quanto mai efficace la lunga, implacabile caduta dell'usurpatore nel delirio del potere, rafforzato dall'ultima profezia delle streghe che, assicurandogli una fasulla invulnerabilità, lo precipiterà nell'estrema solitudine del potere, dove ormai nulla conta più se non la propria conservazione; nulla, nemmeno la morte della moglie, amata compagna di vita e poi di delitto.

Anche Gaia Aprea ha impersonato la sua Lady nell'ottica di un erotico delirio di potere, scolpendo una creatura malvagia sì, ma quasi annientata nella propria personalità dalla notizia inattesa della possibilità di regnare che la lettera di Macbeth le annuncia; in lei il potere diviene esaltazione di una femminilità ferina, da grande madre, quasi un prolungamento reale della profezia onirica delle streghe. La Lady dell'Aprea è riuscita a ben sottolineare questa dipendenza, in un climax che fa di lei quasi il doppio di Macbeth, consigliera, istigatrice, vampiro teso a succhiare dal consorte ogni residuo di umanità, di coscienza. Nella scena del banchetto, come anche prima, il suo ruolo diventa talora scenicamente preponderante, facendo virare la recitazione verso tratti sempre più energici, quasi virili, dove ogni espediente della donna punta a forzare le ultime esitazioni, a mettere in ombra Macbeth atterrito dal fantasma di Banquo, ribadendo ad ogni istante, col gesto ma più ancora con la voce, che è lei adesso a tirare le fila di un qualcosa che, fatto, non si può più disfare.

Nella scena del sonnambulismo invece, la Lady dell'Aprea riemerge nei suoi dissidi interiori, nel prima e nel dopo: la fissità assoluta dello sguardo, il tono distaccato della recitazione, hanno reso splendidamente un personaggio che, proprio perché doppio di Macbeth, Shakespeare non aveva voluto cattivo a tutto tondo, ma anche vittima, più o meno inconsapevole, di una tentazione che è in agguato per ogni essere umano.

Una versione di Macbeth questa di De Fusco, affidata alla moderna ma congruente traduzione di Gianni Garrera, che è anche una lettura scenica coinvolgente e assolutamente attuale, nutrita sia da una profonda coscienza di tutte le implicazioni psichiche della tragedia, sovente messe in ombra da letture più tradizionali, ma anche dalla convinzione dell'attualità della scrittura shakespeariana. In alcuni momenti, la mente dello spettatore non poteva non ritornare a certi filmati di repertorio (e si spera che rimangano tali) con protagonista uno Stalin che si aggira solitario nel deserto della sua residenza, o un Hitler che delira arringando le folle come il suo compare Mussolini.

Infine, va sottolineato che il successo dello spettacolo, cui il pubblico ha prodigato lunghi e calorosi applausi, è stato dovuto anche all'elevato livello attoriale di tutta la compagnia, da Enzo Turrin, Duncan, a Paolo Serra, Banquo, da Claudio di Palma, Macduff, a Paolo Cresta, Lennox, per finire con le tre streghe di Chiara Barassi, Sibilla Celesia, Sara Lupoli, e dall'Ecate di Alessandra Pacifico Griffini, ottimamente guidate da Noa Wertheim, che ha firmato le coreografie.

Giuliana Cutore

9/12/2016