RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


Alla corte dell' Imperatore

 

Assistere al concerto tenutosi domenica 18 maggio 2014 all'auditorium Giovanni Agnelli di Torino, è stato come entrare nel palazzo di un imperatore e attraversare un'infilata di stanze sempre più sontuose, e tutte con il loro perché, fino ad accedere alla sala del trono.

L'anticamera, se così possiamo chiamarla, ci è stata offerta da alcuni elementi della Mahler Chamber Orchestra, ensemble giunto al sedicesimo anno di attività che ha aperto la serata con il Concerto in mi bemolle maggiore «Dumbarton Oaks» di Igor Stravinskij, scritto per un'orchestra da camera di quindici strumenti (flauto traverso, clarinetto in si bemolle, fagotto, due corni, tre violini, tre viole, due violoncelli e due contrabbassi) tra il 1937 e il 1938 ed eseguito per la prima volta in una tenuta nei pressi di Washington D.C., Dumbarton Oaks, appunto, da cui il soprannome del brano. Siamo nel pieno periodo neoclassico di Stravinskij, quello che dura all'incirca dal 1920 al 1954, dove gli stilemi barocchi vengono rielaborati alla luce di una sensibilità moderna, novecentesca. Chiarissima è l'allusione, in apertura del primo movimento, Tempo giusto, al Terzo Brandeburghese di Bach: allusione, omaggio, se vogliamo, ma non sterile ripresa o imitazione: semmai, spunto per dar vita ad un gioco leggero e delicato come un castello di carte. Ed è proprio questa l'impressione che ricaviamo dall'esecuzione della Mahler Chamber Orchestra: i musicisti entrano composti e diritti, con gli strumenti luccicanti sotto i riflettori, e si dispongono in piedi, a semicerchio, senza direttore, come una vera orchestra barocca, con violoncelli e contrabbassi a parte. L'indicazione di Tempo giusto viene intesa come un Allegro non troppo, saltellante e fresco negli interventi dei corni, del fagotto e dei contrabbassi pizzicati; è musica che parla da sé e detta da sola la velocità alla quale essere eseguita. (È risaputo d'altro canto che Bach non metteva quasi mai le indicazioni agogiche, lasciando all'espressività astratta dei suoi brani il compito di dettare il passo all'esecutore, rincorrendo quell'ideale di “musica assoluta” che culminerà nell'Arte della Fuga, dove non sarà più specificato neppure lo strumento!) Il secondo movimento, Allegretto, viene reso con grazia puntillistica, divisionista; si evidenzia con chiarezza il ruolo di ogni strumento, e nel complesso aleggia un che di misterioso, di notturno, di sospeso, alternato a momenti più vitali. Ci stupisce invece il tempo adottato per il terzo movimento, prescritto Con moto, ma non così “movimentato”. Velocità a parte, risulta però il più interessante dei tre per la calibrazione dinamica dei vari strumenti: anche senza direttore, i diversi strumentisti danno prova di perizia emergendo dal tessuto orchestrale col giusto rilievo.

Poco più avanti, ci siamo ritrovati a passare davanti alla cappella del palazzo: e abbiamo potuto ascoltare il secondo brano del concerto, O sacrum convivium!, per coro a cappella a quattro voci, a firma di Olivier Messiaen (1937). Il testo, attribuito a San Tommaso d'Aquino, è stato intonato dal Prague Philarmonic Choir, diretto da Lukáš Vasilek, in un'esecuzione che nulla ha lasciato al caso, prediligendo il tono raccolto e sacrale, che può ricordare un certo Arvo Pärt (quello del Salve, Regina, per esempio), il Barber dell'Agnus Dei o, se vogliamo, il Vangelis di 12 o'clock.

Vicini alla sala del trono, lo stesso Prague Philamonic Choir e la Mahler Chamber Orchestra, questa volta al completo, si sono prodotti nell'esecuzione del terzo brano della serata, la Fantasia per pianoforte, coro e orchestra in do minore Op. 80 di Ludwig van Beethoven. Leif Ove Andsnes, norvegese classe 1970, «uno dei più talentuosi musicisti della sua generazione» (Wall Street Journal), ha rivestito per questa occasione il ruolo di pianista e direttore. Brano di raro ascolto, questa Fantasia, composta in tutta fretta per completare il programma dello storico concerto del 22 dicembre 1808, completamente dedicato a Beethoven, viene a torto, secondo noi, giudicata come un lavoro minore. Sarà pure un lavoro d'occasione, su un testo retorico e poco originale di Christoph Kuffner (inneggiante al beneficio delle arti, e della musica in particolare, per l'uomo); ma sfidiamo a trovare qualcuno, al giorno d'oggi, in grado di comporre un lavoro minore, un lavoro d'occasione di eguale portata. Anzi, il fatto che Beethoven abbia ripreso il tema dal Lied Gegeben Liebe WoO 118, emendato da evidenti parentele mozartiane, dimostra che, nelle mani giuste, qualunque tema, anche uno apparentemente banale, può trasformarsi in un capolavoro di innodica bellezza. Filologicamente, la Fantasia Op. 80 rappresenta ciò che più da vicino anticipa il Finale della Nona Sinfonia, che arriverà quattordici anni dopo, sia per l'uso della voce umana accanto all'organico strumentale, sia per una certa affinità della linea melodica, sia per il trattamento che le viene riservato (forma di tema e variazioni, nel corso delle quali, tra l'altro, ci imbattiamo nello stesso tipo di modulazione, chiamata “cadenza d'inganno”, sulle parole «und Kraft», che ritroveremo nella Nona sulle parole «vor Gott»). Più sottile è il parallelismo che si può avanzare tra l'esposizione del “tema della gioia” nella Nona e il tema cantabile nella Fantasia: là, contrabbassi e violoncelli in ottava che pian piano trascinano tutti gli altri strumenti, qua un quartetto d'archi che contagia il resto dell'orchestra d'irrefrenabile joie de vivre, in cui, ci sia permesso di dirlo, vi vediamo un abbraccio di popoli, un giubilo d'anime.

Andsnes attacca l'ampia introduzione pianistica con un forte impatto drammatico, teatrale. È chiaramente il suo momento, con quegli ampi arpeggi in passaggi accordali a due mani, il momento di esibire le prodezze tecniche. Ma non si pensi che la bravura di Andsnes consista solo nella tecnica: i trilli di accompagnamento, che s'incontrano più avanti, all'apparire del coro, vengono resi uniformemente e senza prevaricare sul resto dell'organico, con la discrezione ammirata e partecipe di chi si limiti ad osservare, da dietro un vetro, uno spettacolo cui non può prendere parte. Dispiace per la presenza un po' troppo insistita dei timpani, che coprono talvolta alcuni passaggi orchestrali, e per il tenore solista, a tratti debole e poco incisivo. Ottima invece la fanfara dei corni che introduce il coro, coro che dà prova di una vitalità scintillante, specialmente nella conclusione, dove, slanciato dalle scale del pianoforte, trasporta il cuore dell'ascoltatore ad un trionfo di gioia e di luce. Di luce, appunto: ripensando all'inizio della Fantasia, abbiamo compiuto un percorso ascensionale dalle note gravi dell'introduzione pianistica, su quel do minore che in Beethoven evoca sempre fatalità e sventura (basti pensare alla Quinta Sinfonia), al tripudio di tutta l'orchestra, del coro e del pianoforte in uno sfolgorante do maggiore, che segna il superamento definitivo (come alla fine, ancora una volta, della Quinta Sinfonia) di ogni angoscia. Dalle tenebre alla luce. Ma suvvia: è pur sempre una composizione minore

Ed eccoci nella sala del trono, al cospetto dell'imperatore. E non di un imperatore qualunque, ma dell'Imperatore di Beethoven: il Concerto per pianoforte e orchestra n°5 in mi bemolle maggiore Op. 73, del 1809, lo stesso anno della morte di Haydn, che coincise con l'apoteosi del Beethoven compositore, lasciata ormai da parte, per via della sordità quella di esecutore. Per Andsnes vuol dire trovarsi a casa propria: dal 2012, infatti, ha iniziato a dedicarsi principalmente alle opere pianistiche del genio di Bonn, e, col progetto Beethoven Journey, è prevista l'incisione integrale dei Concerti per pianoforte di Beethoven proprio con la Mahler Chamber Orchestra (per la Sony Classical). Abbiamo perciò assistito, probabilmente, ad una sorta di “prova generale” di questa incisione. E non c'è che dire, si tratta di un'ottima prova generale. La maestria di Andsnes è fuori discussione, così come il dosamento delle dinamiche, che passano, lungo tutto il Concerto, dalla fanfara a piena orchestra alla dimensione intima e cameristica dei passaggi più carezzevoli (soprattutto nel secondo movimento). Colpisce l'uso delle trombe barocche, più squillanti rispetto a quelle normalmente oggi impiegate, cui corrisponde, però, un uso troppo caricato dei timpani, come già rilevato nel corso della Fantasia, forse di incisività eccessiva rispetto allo stile dell'Andsnes pianistico, votato all'eleganza della frase melodica, laddove preferiremmo un Beethoven più irruente. Venialità che non adombrano ad ogni modo il fascino di questa esecuzione, così come alcune asprezze un po' “nasali” di oboi e clarinetti.

Si rimane sempre spiazzati come dalla maestosità del primo Allegro si passi alla soavità impalpabile dell' Adagio un poco mosso; come già aveva sperimentato nel Terzo Concerto Op. 37, il movimento lento dell'Imperatore è scritto in una tonalità molto distante da quella d'impianto (nell'Op. 37 passavamo dal do minore del primo movimento al mi maggiore del secondo; qui, nell'Op. 73, passiamo dal mi bemolle maggiore al si maggiore; passaggio in realtà non casuale, perché si tratta di una modulazione per transizione: il mi bemolle, enarmonicamente chiamato re diesis, diventa la nota di perno tra le due tonalità): artificio che permette di trasmigrare con l'orecchio e con l'anima verso un universo distante e parallelo, intriso di dolcezza. Ed è questa, precisamente, l'impressione che ci lascia l'esecuzione di Andsnes: l'impressione di quella dolcezza malinconica che già sembra preannunciare Schumann. Ben interpretato, poi, il clima di attesa del passaggio verso l'Allegro conclusivo, che sfocia in Rondò brioso, pieno di verve . Anche qui l'eleganza, più che il furore esecutivo, è la cifra distintiva, anche per quanto riguarda l'orchestra, che non viene trascurata in nessun dettaglio, specialmente nel saper dare all'effettistico passaggio finale dei timpani in pianissimo (il passaggio che, sembra, Liszt facesse eseguire dopo un meticoloso confabulare col timpanista) un colore e un fascino straordinari.

Per finire, una bomboniera ancora beethoveniana: la Bagattella n°1 in mi bemolle maggiore Op. 33: niente di meglio che accostare la partitura più possente mai concepita da Beethoven per pianoforte e orchestra con la miniatura, gioiello di semplice graziosità.

Christian Speranza

21/8/2014

La foto del servizio è di Pasquale Juzzolino.