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Meno grigi più verdi di Alberto Mattioli

Contro i luoghi comuni verdiani

Un libro per Verdi ma sicuramente contro i verdiani e i luoghi comuni sul Cigno di Busseto quello che ha visto da qualche mese le stampe per la casa editrice Garzanti ed è stato redatto con spirito arguto e grande sarcasmo dal giornalista e critico musicale de La Stampa Alberto Mattioli. Giuseppe Verdi visto non solo come gigante della musica ma anche come esteta, intellettuale, drammaturgo, regista, sociologo e…perché no, forse anche antropologo della cultura e della mentalità italiana del secolo XIX e sicuramente della prima metà del secolo XX.

L'autore nel suo testo si scaglia in modo diretto, senza circonvoluzioni o mezzi termini, contro le letture oziose e ottuse dell'epistolario e delle frasi lasciateci dal grande compositore, spesso male recepite e male interpretate da faziosi e poco riflessivi appassionati delle sue opere, nonché da più giovani e vetusti musicanti, musicofili e musicisti. Una delle prime argomentazioni da sfatare è l'importanza che Verdi dava alla voce, evidenziando che quest'ultima è importante ma non è tutto. Verdi lo spiega in una missiva del 12 novembre 1856 all'impresario Vincenzo Torelli che vuol mettere in scena La Traviata al San Carlo: «Tutte e tre hanno voce debole ma talento grande, anima e sentimento di scena. Eccellenti tutte e tre nella Traviata ». Infatti le tre erano Virgina Boccadabati, Marietta Piccolomini e Maria Spezia. E in un passo successivo Mattioli reitera ancora e con più veemenza: «Insomma per Verdi il canto non è un fine, è un mezzo. Uno dei tanti, e nemmeno il principale, di quel puzzle di arte e artigianato che è il teatro d'opera. Basta leggere le sue lettere per scoprire che le sentenze e i pregiudizi ripetuti da generazioni di fanatici si rivelano subito per quelle che sono: scemenze».

Altrettanto correttiva di una tradizione tanto consueta quanto ottusa è l'interpretazione deviante della celebre frase di Verdi: «Le licenze e gli errori di contrappunto si possono ammettere, e son belli talvolta, in teatro: in Conservatori, nò. Tornate all'antico, e sarà un progresso». È ovvio che specialmente l'ultima frase offre un'immagine di Giuseppe Verdi codino e reazionario della più bell'acqua ma in realtà il ritorno all'antico è rivolto agli studenti che devono impadronirsi e conoscere bene le tecniche del passato per procedere con competenza e professionalità nel futuro. In teatro invece, per raggiungere particolari risultati, tutto sarà permesso pur di conseguire gli effetti voluti!

La scure implacabile del sarcastico e pungente Mattioli si abbatte senza misericordia sui melomani fautori di una presunta fedeltà assoluta e cristallizzata, quasi una venerazione totemica verso certe consuetudinarie messe in scena e tipologie di esecuzioni: «…Proprio la reverenza, anzi l'ossequio, meglio la venerazione verso il monumento nazionale rendono difficile conoscerlo meglio. Oltre alla retorica, si è formata nei decenni una “verdianità” che nulla ha a che vedere con il vero Verdi e tutto il mausoleo dov'è stato rinchiuso… Ma tuttora si contestano le edizioni critiche delle sue opere in nome di una sedicente “tradizione” che, scavandoci dentro, risulta un insieme di cascami e rifiuti, vecchi trucchi, remote superstizioni, effetti ed effettacci e sì, ogni tanto anche qualche pepita. Raccolta differenziata, subito. E non parliamo della messinscena. In Italia, par di capire, è sbagliato far vedere qualsiasi cosa non si sia già vista, nella curiosa idea che il teatro sia l'eterno ritorno del sempre uguale e che il bello si identifica con il déjà vu. Come se il suo scopo non sia appunto quello di suscitare eresie, invece di ribadire dogmi».

Per l'acuto Mattioli Verdi è: «Una specie di antropologo di una popolazione dai curiosi usi e costumi, un Lévi-Strauss padano che analizza gli strani abitanti di quella penisola allungata in mezzo al Mediterraneo in una bizzarra forma di stivale». Egli rimane poi anche il grande artista con la profonda coscienza dell'aspetto ideologico ed effimero dell'arte, che pone sempre la vita vera, reale e vissuta al primo posto, senza nessun residuo di snobismi ed estetismi. Infatti proprio lui definì con grande orgoglio la Casa di Riposo per Artisti costruita a Milano La mia opera più bella. E se lo diceva lui stesso perché non credergli.

Libro altamente canzonatorio e demistificatorio dei luoghi comuni verdiani. Sicuramente da leggere!

Giovanni Pasqualino

13/10/2018