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Il melodramma della nazione

Politica e sentimenti nell'età del Risorgimento

di Carlotta Sorba

Nel volume di memorie intitolato I miei ricordi Massimo D'Azeglio esprimeva le sue controverse emozioni riguardo il fenomeno dell'opera lirica, specchio di certi sentimenti patriottici e risorgimentali, ma nello stesso tempo modello di ostentata e retorica emotività riverberantesi a sua volta nella realtà politico-sociale, oltre che nella plateale esaltazione del divismo canoro: «… In ciò è d'uopo riconoscere quanta fosse la finezza e l'avvedutezza del Governo austriaco. Esso, si può dire, ha governato per tant'anni la Lombardia per mezzo del teatro della Scala. E, bisogna dirlo, fino ad una certa epoca vi è riuscito bene. Io stesso, che ora scrivo dopo tanti anni, mi rammento benissimo il fascino che esercitava su tutti e anche su me l'annunzio, per esempio, di una rappresentazione di madama Malibran…».

La professoressa Carlotta Sorba, insegnante di Storia dell'Ottocento e Storia e teoria culturale presso l'Università di Padova, ha da qualche mese pubblicato per le edizioni Laterza il saggio Il melodramma della nazione. Politica e sentimenti nell'età del Risorgimento, che tenta di indagare e sviscerare la relazione fra letteratura e politica dalla fine della Rivoluzione Francese al periodo risorgimentale italiano che si conclude con la prima guerra d'indipendenza (1848-1849). La studiosa indaga con fervore e perizia come l'immaginazione melodrammatica ed il suo pathos dilatato passi, trasudi ed arrivi persino a permeare di sé il mondo della realtà italiana e soprattutto il linguaggio politico, che sembra avvalersi di tutta la carica emotiva e sentimentale sprigionantesi dalle rappresentazioni melodrammatiche: «Non è un caso che sia Donizetti – il maggior rappresentante del “melodramma melodrammatico” – a costituire secondo Mazzini l'esempio più promettente di un'opera rinnovata in direzione dell'impegno civile. Il compositore aveva mostrato in effetti di saper toccare le corde della passionalità politica in opere come Marin Faliero, Maria Stuarda o Anna Bolena. Ma ciò che aveva colpito Mazzini era in realtà la sua capacità di coinvolgimento dello spettatore in narrazioni piene di colpi di scena, la marcata tipizzazione dei personaggi costruita a partire dai loro contrasti, la sapiente spettacolarizzazione del passato». Tale melodrammaticità si estende anche al teatro di parola, al romanzo ed ai libelli politici dello stesso periodo: «…Si può dunque concludere che negli anni compresi fra il 1820 ed il 1848 si assiste in Italia al moltiplicarsi di un gran numero di narrazioni storiche caratterizzate da un forte impatto visuale e da un registro definibile come melodrammatico. In molte di esse si rintracciano dei dispositivi narrativi ed espressivi che rispondono perfettamente alle sollecitazioni che Mazzini aveva rivolto ai letterati, ai compositori, ai pittori, e da molti riprese in quegli anni. Condensano in sé elementi fatti per colpire, coinvolgere, commuovere un pubblico più largo e insieme sollecitarlo ad agire; insomma per creare un'arte sociale capace di unire la collettività intorno a valori condivisi.»

Ma proprio l'assunzione di moduli emotivi melodrammatici anche da parte del reale e di conseguenza della cultura e della politica italiana dell'epoca non dimostrano forse proprio la loro limitata efficacia? Non dimostrano forse l'ostentazione di una epidermica ed emozionale verbosità sfociante comunque nell'effimero della vana roboante blaterazione? Su quest'ultima estrema ma demoralizzante contraddizione cui sembra giungere alla fine il saggio, l'autrice appare esitare e dubitare. Sembra anzi quasi entrare in contraddizione con le sue premesse storiche di fondo: «All'estrema complessità del reale tende in questo modo a sostituirsi un quadro dominato dallo scontro tra persecutori e vittime, in cui peraltro queste ultime, come in ogni melodramma, acquistano forza dalle prove durissime cui sono sottoposte. Si tratta di una forma di rappresentazione appunto reattiva e performativa, che non tenta di proporre spiegazioni, né tantomeno di offrire soluzioni, ai problemi posti con forza sotto il riflettore. Quella melodrammatica si rivela, allora, una modalità di immaginazione perfettamente adeguata a un'epoca caratterizzata non solo dall'eclissi delle utopie, ma anche da una sostanziale sfiducia verso ogni possibilità di trasformazione e di miglioramento del reale? Rispondere di sì significherebbe chiudere il libro in una prospettiva davvero fosca.».

Ma rispondere di sì, aggiungiamo noi, oltre a dimostrare un vigoroso coraggio da storico avrebbe anche evidenziato una coerente consequenzialità alle tanto affascinanti ma poco congruenti e conseguenti deduzioni metodologiche e culturali poste a conclusione della pur valida ricerca. Infatti l'intreccio fra melodramma, storia, cultura, società, a noi parrebbe più complesso e articolato, anche perché all'epoca non esistevano radio, televisioni o internet che riuscivano ad uniformare e diffondere l'informazione in modo tanto omologato e capillare come avviene al giorno d'oggi. Si dovrebbe forse affermare che furono più certi patrioti che videro ideologicamente in alcuni melodrammi degli incitamenti alla libertà ed all'unificazione italiana, traendo da essi ciò che più rispondeva e partecipava ai loro fini. In tal modo ogni inno di ribellione o di rimpianto patriottico si offriva sempre e comunque ad una lettura prettamente risorgimentale, anche quando ciò non fosse stato nelle sue reali intenzioni mimetiche. Di fatto il melodramma ha condizionato il costume sociale non più di quanto quest'ultimo l'abbia a sua volta condizionato e piegato ai propri fini politico-culturali, anche a prescindere dall'impegno civile dei librettisti e musicisti che lo alimentarono e lo resero grande artisticamente.

Giovanni Pasqualino

8/4/2015