RECENSIONI
-

_ HOMEPAGE_ | _CHI_SIAMO_ | _LIRICA_ | _PROSA_ | _RECENSIONI_| CONCERTI | BALLETTI_|_LINKS_| CONTATTI

direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

«Ei fu». A lui un requiem

Se, nel 1865, alla riscrittura del Macbeth, facendo dire alla Lady «A loro un requiem, l'eternità!», le streghe (o Ulrica) gli avessero predetto che appena tre anni dopo avrebbe posto le basi per un vero Requiem, oltretutto iniziando dalla fine, probabilmente Verdi le avrebbe cacciate al dimòn. Mai invischiarsi con fattucchiere di tal fatta: se predicono, poi si avvera. E così, tre anni dopo, alla morte di Rossini, il Roncolese propose una messa funebre a più mani per commemorarlo: suddiviso il testo latino in dodici brani, ciascuno affidato a un compositore diverso – Verdi incluso, a firmare quello finale, il Libera me –, la composizione fu completata nell'estate del 1869, pronta per essere eseguita pochi mesi dopo, il 13 novembre, esattamente a un anno dalla morte di Rossini; ma il destino ci si mise di mezzo, e per via di disaccordi organizzativi (e commerciali), l'esecuzione saltò. Saltò fino al 1988! Intanto, nel 1873, venne a mancare anche Manzoni, per il quale Verdi aveva nutrito grande ammirazione fin da ragazzo, fin da quando, adolescente, ne lesse I promessi sposi e ne musicò Il cinque maggio, una di quelle produzioni giovanili andate perdute (singolare che Manzoni, anch'egli adolescente, abbia incontrato Bonaparte in un luogo destinato a lanciare Verdi qualche anno dopo: La Scala). Ed ecco l'occasione per comporre un Requiem, al quale aveva già vagamente in animo di applicarsi dal ‘72: all'indomani del successo di Aida, con cui avrebbe voluto concludere la sua carriera musicale (Boito era ancora lo scapigliato del «muro / di lupanare», un giovinastro da cui tenersi alla larga), eccolo rimettersi al lavoro per presentare a Milano, nella chiesa di San Marco, il 22 maggio 1874 (anche stavolta a un anno esatto dalla dipartita dell'estinto), la Messa per intero, recuperando quel Libera me che poi modificò in parte nelle riprese del '75.

L'edizione 2023 del Festival Verdi di Parma ha programmato in data unica il Requiem per sabato 23 settembre, nella suggestiva cornice del Teatro Regio. Ritrovo qui Oksana Lyniv sul podio, dopo averla lasciata a gennaio a Bologna alle prese con un Holländer di tutto rispetto; reduce da prestigiose direzioni berlinesi, Lyniv si accosta alla Messa ricavandone un esito a tratti contraddittorio e non del tutto riuscito, con dei se e dei ma , corroborato nelle sue luci e nelle sue ombre dai solisti e dalla massa corale; quest'ultima ha visto la partecipazione congiunta del Coro del Teatro Regio di Parma, diretto da Martino Faggiani, e del Coro del Teatro Comunale di Bologna, diretto da Gea Garatti Ansini. Del Comunale di Bologna, di cui Lyniv è direttrice musicale, è pure l'Orchestra, che si attesta su una cinquantina di archi (quattordici violini primi e il resto di conseguenza: numero grande ma non esagerato, giustamente pensato per il brano e il tipo di esecuzione), coi fiati previsti, senza raddoppi. Con una particolarità: il controfagotto al posto dell'”officleide”, come scrive Verdi. Scelta condivisibile, pensando alla difficile reperibilità dello strumento; meno condivisibile, pensando al fatto che l'oficleide è un ottone e non un legno, derivato certo da un legno, il serpentone, ma non un legno tout court . La scelta, tuttavia, ha il suo bravo perché. Anzitutto, se Verdi avesse voluto il classico rinforzo al grave della sezione degli ottoni, avrebbe potuto prescrivere il solito cimbasso; l'aver optato per l'oficleide è forse sintomo d'intenzione di un impasto timbrico più amalgamato, se pensiamo che l'oficleide è assimilabile a un flicorno di forma più allungata e quindi di timbrica più “leggera”. Di qui il rimpiazzo sensato del controfagotto quale rinforzo grave dei legni e non degli ottoni, ma di timbro sicuramente più “morbido” rispetto a un ottone contrabbasso standard quale il cimbasso, che Verdi poteva indicare e, come detto, non ha indicato (o la tuba, che aborriva, definendola «quel diavolo di bombardone»), sulla via di un avvicinamento ai desiderata timbrici dell'autore che passa perlomeno da uno strumento che, sia pure una volta sola, Verdi ha impiegato: nella scena del Grande Inquisitore.

Rinunciando a una parte di ascolto emozionale in favore di uno più razionale, chi scrive ha pensato, per amore di obiettività, di seguire il concerto sulla partitura, unico tornasole oggettivo di un'esecuzione. All'analisi, la prova dell'orchestra risulta buona, con apprezzabili interventi solistici, soprattutto dei legni. Stupisce invece la direzione di Lyniv, sicuramente più a suo agio su spartiti d'oltralpe, vedi il Wagner perinanzi menzionato, e che si sarebbe voluta più attenta, tanto per cominciare, alle dinamiche, di cui la partitura è ricca: a passaggi ben riusciti, infatti, se ne accostano altri dove, delle quattro p richieste da Verdi, in un quasi utopico “più che piucchepianissimo”, ne rimane una, e forse nemmeno: e ci si domanda perché. La fin troppo famosa, e a volte abusata, violenza della grancassa nel Dies iræ, dove le corde dello strumento vengono chieste «ben tese onde questo contrattempo riesca secco e molto forte», è stemperata, lassa e non così impressiva: i colpi paiono non secchi, ma cupi, smorzati, poco incisivi e poco dissimili da quando, poco dopo, le stesse corde vengono chieste allentate (nº16 in partitura) all'ingresso del basso. Gli esempi potrebbero moltiplicarsi, ma valgano questi a mo' di sunto. Spigolosità dinamiche a parte – dove, a dirla in breve, scarseggiano le sfumature, le transizioni, i crescendo, ecc .–, riesce meglio il lavoro di coesione strutturale dei movimenti, soprattutto quelli pluripartiti, Dies iræ in testa, inteso come l'intera sequenza, ove le varie sezioni vengono fatte seguire con fluidità, dando compattezza a un brano che, per la sua lunghezza e il suo frastaglio, riesce sovente all'orecchio artificiosamente smembrato. Sorte alterna subiscono invece i passaggi segnatamente contrappuntistici: se il «Te decet hymnus», per coro a cappella a quattro voci, risulta intellegibile nel suo intreccio polifonico, altrettanto non si può dire dove le cose si fanno più complesse, e più si fanno complesse, più si perde chiarezza: il Quam olim Abrahæ e la sezione fugata del Libera me possiedono ancora un barlume di chiarezza, ma con il Sanctus, vera e propria summa del magistero contrappuntistico verdiano – una doppia fuga per doppio coro e orchestra (il maestro Lavigna sarà stato orgoglioso del suo allievo, che dopo quasi quarant'anni rispolverava quegli esercizi facendone molto di più di un arido sfoggio di virtuosismo compositivo!) –, le voci si vengono a sovrapporre senza che se ne possa apprezzare l'architettura, e ad emergere, con sorpresa, sono gli archi con il loro controsoggetto, invero meno interessante del dialogo imitativo dei due soggetti, con le voci raddoppiate da legni e ottoni. La concertazione, infine, a parte alcuni scarti di approssimatività, assolve al suo compito e asservisce coro e solisti, ma non osa uno scavo interpretativo ulteriore, mentre le agogiche riposano in seno a una rassicurante normalità, priva di guizzi di personalità di cui in altre occasioni Lyniv ha dato prova. Nell'insieme, l'impressione è quella di osservare un austero castello dal di fuori, senza tuttavia riuscire a penetrarne le stanze.

I solisti, si diceva. Il quartetto vocale, seppur corretto nei suoi singoli elementi, non pare omogeneo, mostrando discrepanze qualitative. Luminoso e corretto Freddie De Tommaso, ma che non ingrana come si vorrebbe: a lui è affidato l'arduo compito di aprire il Kyrie, con quella frase melodica eroica e affermativa, che però, in bocca a lui, un poco tentenna e perde di fiducia. Ha modo di farsi valere tuttavia nell'Hostias e nell'Ingemisco, dove il canto più intimo, più raccolto, e forse la voce scaldata a dovere, si adatta meglio alle sue corde espressive. Garanzia di qualità è invece Michele Pertusi, il cui timbro caldo e la cui morbidezza di accenti sanno conferire buona espressione ai suoi interventi. Sul versante femminile, altra garanzia è sempre l'ottima e carismatica Daniela Barcellona, mentre una nota di merito va al soprano Federica Lombardi, che esibisce voce solida, ampia e brunita, e che sa mettere a profitto queste qualità declinandole in accenti di drammaticità e drammatizzazione, caratterizzando il suo ruolo quasi fosse in un contesto operistico, come vestendo una “personalità”: quella in particolare della supplicante tremebonda (in questo aiutata dalla scrittura verdiana). Mentre le altre voci cantano «salva me, fons pietatis» dando l'impressione di un fiducioso abbandono alla bontà divina, il suo «salva me» assume la sfumatura di chi si trovi di fronte al Dio di Giuda, al Dio più vetero che neotestamentario.

Buona, anche se non eccelsa, la prova del coro, pregevole nei piani e nei pianissimi a differenza dell'orchestra. A tutti, il Teatro tributa vigorosi applausi, ma rimane il dubbio se in qualche cuore l'applauso fosse diretto più a Verdi che all'esecuzione.

Christian Speranza

26/9/2023

La foto del servizio sono di Roberto Ricci.