RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

«O amici, non questi suoni!»

Le parole con cui il baritono inizia a cantare, nel Finale della Nona di Beethoven, ben si adattano al terzo appuntamento di Rai Nuovamusica, giovedì 13 febbraio 2020. Per due motivi. Anzi tutto, non è la “solita” classica: l'ormai tradizionale mini-rassegna, concentrata inizialmente quasi tutta nel mese di febbraio e negli ultimi anni diluita lungo l'intera stagione sinfonica dell'Orchestra Sinfonia Nazionale della Rai (OSN), verte su un repertorio più che moderno, addirittura contemporaneo (frequenti i casi di prime esecuzioni assolute, anche di composizioni commissionate appositamente dall'OSN), al di fuori, quindi, dei brani di più frequente e accessibile ascolto. Secondo, non si poteva escludere da questo circuito di concerti, in occasione del duecentocinquantesimo anniversario della nascita di Ludwig van Beethoven (1770-2020), una connessione e un omaggio al grande genio di Bonn.

Ma andiamo con ordine.

Sotto la sapiente guida del maestro Marco Angius, Direttore principale dell'Ensemble Bernasconi dell'Accademia del Teatro alla Scala – e dal 2015 anche Direttore artistico dell'Orchestra di Padova e del Veneto –, l'OSN ha offerto una panoramica di un Novecento curioso, per nulla scontato, attraverso tre brani, presentati rigorosamente in ordine cronologico, seguiti da uno che valica le colonne d'Ercole del Duemila. Ecco allora addentrarci in Central Park in the Dark, brano per orchestra del 1906 di Charles Ives (lo stesso autore che aveva dato avvio al ciclo di Rai Nuovamusica di questa stagione con The unanswered question il 31/10/2019), dove l'intento è quello di ricreare i suoni che si sarebbero potuti ascoltare di notte, comodamente seduti su una panchina del Central Park di New York (donde il titolo), prima che clacson e motori la facessero da padrone. Si sentono quasi boccheggiare gli archi, in una quiete afosa, sonnolenta e un po' misteriosa, rotta qua e là da parchi interventi del clarinetto e del flauto; per pochi minuti l'irrompere di due pianoforti che si sfidano a colpi di ragtime prende il sopravvento, ma la quiete ha la meglio e porta il brano a spegnersi. E in questo gioco di ombre e di sfumature emergono gli archi dell'OSN, valenti e sicuri come già ampiamente dimostrato in altre occasioni.

Ottima prova dell'OSN al gran completo, invece, se contiamo che è un'orchestra generalista, che punta a eseguire un repertorio vasto e variegato e non è specializzata in questo, per il secondo brano in programma, Duo pour Bruno di Franco Donatoni, del 1974-75. Dedicato a Bruno Maderna, fonte di ispirazione e confronto per l'autore, Duo pour Bruno mette in scena una dilacerata opposizione tra la calma apparente della prima parte e la violenza espressionista della seconda. Stando alle testimonianze di Donatoni, più volte ricoverato in quel periodo per profonde crisi depressive, questo brano nasce dal forte colpo emotivo ricevuto dalla morte di Maderna. C'è qualcosa di malato, in effetti, in quel convulso brulicare dei legni, in quel gruppo di celesta, arpa, pianoforte e xilofono fusi in un timbro traslucido che animano l'indistinto, congestionato agitarsi degli archi, i quali strisciano senza mai approdare alla superficie dell'orchestra, come un rovello interiore. Più avanti il tono cambia. Il gesto compositivo si fa drammatico, brutale, tra archi divisi e sovrapposti, altamente stridenti, e vere e proprie bordate di due grancasse che si rispondono come cannoni in una battaglia di galeoni. E sopra alla battaglia echeggiano le campane, tante campane, dodici, per la precisione, a coprire l'intera scala cromatica: e sono proprio le campane lo strumento su cui si impernia tutto il Duo e a lasciare per ultime le orecchie dell'ascoltatore, continuando a oscillare nel silenzio della sala quando il resto dell'orchestra ha già smesso di suonare (un po' come nel Cantus in memoriam of Benjamin Britten di Arvo Pärt).

Se Donatoni si presenta con un brano così materico e denso, Luigi Nono, con il suo A Carlo Scarpa, architetto, ai suoi infiniti possibili, del 1984, è aereo, diafano, immateriale, proprio come i vetri progettati dal dedicatario del brano dal 1932 al 1947 presso la ditta Venini. Un omaggio musicale cifrato: non solo per il numero di battute, 72, come gli anni di Scarpa, morto nel 1978, ma anche per le note impiegate, due soltanto, il mi bemolle e il do, S e C in notazione tedesca: guarda caso, le prime due lettere del suo cognome. Comporre un brano disponendo di due sole note non è semplice: Ligeti lo aveva fatto nella Musica ricercata una trentina d'anni prima, per pianoforte solo. Nono, in orchestra, usa i microintervalli, giungendo a un risultato diverso, forse meno interessante, microintonazione a parte, dato che il tutto si risolve in una serie di combinazioni sonore sulle stesse due note, ma ad ogni modo degno di essere ascoltato.

1906, 1975, 1984: musica “nuova” ma non “nuovissima”. Più recente, invece, si diceva, il brano con cui il concerto si conclude: Absolute jest, per quartetto d'archi e orchestra, scritto tra il 2011 e il 2012 da un John Adams che omaggia Beethoven. Un brano ricco di suggestioni ritmiche e melodiche di spirito beethoveniano, ma declinate in chiave moderna, con riconoscibilissimi inserti del Beethoven autentico, prime fra tutte le pulsioni ritmiche del primo movimento della Settima Sinfonia e dello Scherzo della Nona, per non dire di quello della Grösse Fuge Op.133 (benché lo scrivente si riservi di avervi scovato anche un lacerto del Rondò dal Concerto K 595 di Mozart). Un brano che può ben fare, pur con la sua giovanissima età anagrafica, da cerniera tra il vecchio e il nuovo.

Singolare l'organico, che prevede non due violini, una viola e un violoncello solisti, come un “quadruplo concerto” (memore forse dell'Op.56 di Beethoven?), ma l'intero quartetto in dialogo con l'orchestra. «Torniamo all'antico e sarà un progresso», scriveva Verdi: e a ben vedere, la struttura è molto simile a una forma di ben antica conoscenza: il concerto grosso, con l'opposizione di concertino e orchestra. Da manuale, o quasi. A fare da “quartetto solista” è stato chiamato il Quartetto Henao (William Chiquito, primo violino, Soyeon Kim, secondo violino, Stefano Trevisan, viola, Giacomo Menna, violoncello), raffinato, duttile e smagliante nell'interpretazione (plauso speciale a Menna, esposto in ruolo solista), quanto generoso nell'offrire un encore coerentemente beethoveniano: un estratto dallo Scherzo dal Quartetto n°6 in si bemolle maggiore Op.18.

Christian Speranza

17/2/2020

Le foto del servizio sono di PiùLuce.