RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

Fata viam invenient

Mariano Rigillo ed Elisabetta Pozzi.

Le tragedie greche evocano generalmente negli spettatori grandi, antichissimi teatri in pietra, roventi estati e soprattutto l'idea dell'aperto, di una rappresentazione en plein air che nell'immaginario sembra forse l'unica atmosfera consona agli immani drammi di Medea, degli Atridi, di Fedra, degli dei e degli eroi. È sembrato dunque strano sulle prime che il Teatro Stabile di Catania, in collaborazione con l'Associazione Teatro Stabile della Città di Napoli, avesse inserito nel suo cartellone addirittura l'unica trilogia giuntaci intatta, l'Orestea di Eschilo, suddivisa in due serate, la prima dedicata all'Agamennone, la seconda alle Coefore e alle Eumenidi. Strano sia perché il pubblico siciliano è fin troppo abituato a dedicarsi alle tragedie greche soltanto in estate, dato che Siracusa rappresenta in tal senso un notevole ed esclusivo polo d'attrazione, sia per il timore che un teatro al chiuso, depauperando il lavoro della sua cornice abituale, lo rendesse facile preda di più o meno atroci sperimentalismi registici, ma sarebbe meglio chiamarli travisamenti, già insopportabili all'aperto, dove quanto meno l'occhio può riposare guardando il cielo, la luna, o un boschetto.

Per quel che riguarda l'affluenza del pubblico, il timore si è purtroppo rivelato fondato, dal momento che, complici forse le feste natalizie, il Verga non ha registrato il pienone, almeno alla prima del 28 dicembre alla quale abbiamo assistito; sul fronte invece della generale riuscita dello spettacolo, l'allestimento di Luca De Fusco ha offerto una messa in scena di notevolissimo livello che, pur salvaguardando l'ambientazione e la scenografia tipiche della tragedie greca, si è però distinta per un taglio registico che, utilizzando i moderni sistemi multimediali, li poneva però al servizio di un ulteriore approfondimento delle tematiche e dei moduli formali e stilistici della rappresentazione classica.

La scena di Maurizio Balò, dominata dalle porte della reggia di Argo, in una generale cupezza rotta solo da luci sanguigne che creavano sinistri riflessi sui costumi di Zaira de Vincentiis, sontuosi di un lunare lucore per Clitennestra ed Agamennone, disadorni per il coro e sinuosamente orientale per Cassandra, rendevano evidenti due fondamentali aspetti della tragedia greca: il suo essere teatro di parola e non di azione, e il suo carattere antinaturalistico, teso a creare quella coscienza di assistere ad una finzione che tanto sarà sfruttata dall'espressionismo di Brecht. Il tutto su una recitazione di alta scuola, dove ogni attore, dai protagonisti all'ultimo corifeo, si distingueva per professionalità, egregia dizione e compostezza del gesto, riuscendo a rendere straniata nei giusti limiti la declamazione, atta a sostituire l'azione e a farsi essa stessa azione.

Magistrale in tal senso è stata la Cassandra di Gaia Aprea, che ha infuso al suo lungo delirio profetico un climax tragico di rara efficacia, senza mai cedere alla tentazione di una follia moderna, mantenendo anzi una ieraticità dolorosa che ha scolpito la volontà eschilea di raffigurare la morte di Agamennone attraverso le parole della sacerdotessa, nel compiersi di un dramma necessario, già scritto nella mente degli dei sin dal sacrilego banchetto offerto da Atreo al fratello Tieste, ribadito dal sacrificio di Ifigenia che innesca in Clitennestra la molla fatale del delitto, e fa sì che Egisto possa compiere la sua personale vendetta.

E da tutti i protagonisti spirava la sensazione dell'ineluttabilità del fato, del doversi compiere di una tragedia che ne avrebbe generata un'altra, quella di Oreste: da Clitennestra, interpretata da Elisabetta Pozzi, che ha infuso alla regina di Argo non solo l'odio per il consorte, la finzione delittuosa, l'inganno cosciente, ma anche la dolente umanità della madre ferita a morte; dall'Agamennone di Mariano Rigillo, eroico e distaccato, imperioso nel gesto, ma volutamente lento e come esitante a varcare le soglie della reggia, fino alla trionfante gioia di Egisto, interpretato da Paolo Serra.

Le musiche di Ran Bagno, ora sinuose, ora gelidamente tragiche, punteggiavano i dialoghi e i monologhi sfruttando le pause senza mai sovrapporsi, seguitando i movimenti coreografici di Noa Wertheim. Infine, altro punto di forza dell'allestimento è stata la traduzione di Monica Centanni che, pur nella fedeltà al testo eschileo e alla sua cupezza, ha optato per una lingua drammatica nel senso più stretto del termine, evitando sia le secche di una fedeltà stilistica che avrebbe appesantito il copione di termini desueti poco adatti, sia la tentazione della modernità e dell'appiattimento lessicale: una traduzione teatrale, attenta alla recitazione e al pubblico, che ha permesso agli spettatori di seguire agevolmente la vicenda, mantenendo al tempo stesso, grazie ad un tono medio ma con improvvise impennate nell'alto, inteso come uso di termini focali e focalizzanti, la pregnanza di tutte le battute dove irrompeva il terribile, ineluttabile fato degli Atridi.

Giuliana Cutore

30/12/2015

La foto del servizio è di Fabio Donato.