RECENSIONI
-

_ HOMEPAGE_ | _CHI_SIAMO_ | _LIRICA_ | _PROSA_ | _RECENSIONI_| CONCERTI | BALLETTI_|_LINKS_| CONTATTI

direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

Orphée et Euridice

alla Scala di Milano

C'è sempre una prima volta, in questo caso al Teatro alla Scala ove è stato rappresentato Orphée et Euridice di Christoph Willibald Gluck, nella versione francese andata in scena all'Académie Royale di Parigi il 2 agosto 1774. Doveroso precisare che Orfeo ed Euridice, nella versione italiana di Vienna del 1762, fu rappresentato per la prima volta alla Scala nel 1891 e in seguito per altre undici produzioni, con la presenza di direttori e interpreti di altissimo livello. L'edizione italiana, assieme ad Alceste (1767), è il vessillo della cosiddetta “riforma”. Tale riforma, in sintesi, consiste nell'innalzare la musica al suo vero compito di servire la poesia attraverso l'espressione e il contesto favolistico ma senza interrompere l'azione, o reprimere, con inefficaci e ridondanti ornamenti. Questa nuova drammaturgia, anche se fu concepita per riformare l'opera seria italiana, ebbe rispondenza addirittura rivoluzionaria a Parigi, dove le predette opere furono rappresentate nella nuova versione. Aggiungo, come evidenziato da Emilio Sala (nel programma di sala), che assieme a Iphigénie en Tauride, tali opere cambiarono il corso della musica francese e mutarono la tragédie lyrique di Lully e Rameau in un nuovo genere drammatico-musicale, il quale attraverso composizioni di Grétry e Lemoyne crearono il terreno per capolavori come La Vestale e Fernand Cortez di Spontini.

Orphée et Euridice dalla versione viennese a quella parigina subì molte e significative modifiche. La più evidente è il ruolo vocale che passa da castrato contraltista (a Vienna fu il celebre Gaetano Guadagni) a haute-contre (a Parigi Jospeh Legros) con gli inevitabili trasporti. Gluck inserisce inoltre un'aria di bravura “L'espoir renait dans mon ?me”, la quale definisce il carattere più eroico del protagonista e anche per evidenziare le qualità vocali del primo interprete. Un'altra variante è la trasformazione nel carattere spettacolare attraverso la coreografia del balletto. Nel secondo atto il compositore inserisce un segmento dal suo balletto Don Juan (1761) che rafforzò il divampare delle Furie, il balletto ebbe un successo trionfale a Parigi. Inoltre, sono da rilevare altri aspetti che differenziano le due versioni. Nella scena dei Campi Elisi, Gluck ampliò la Danse des ombres aggiungendo un Trio ornato da un flauto solo. Non secondario anche l'aspetto timbrico, nella versione parigina strumenti antichi come cornetti e chalumeaux furono sostituiti da oboi e clarinetti. La versione viennese è stata lungamente preferita a quella parigina, anche per una tesi filologica di originalità, mentre dovremmo considerare che si tratta di due versioni totalmente differenti, le cui varianti, entrambe per mano dell'autore, sono di estremo interesse.

Lo spettacolo presentato alla Scala proveniva dal Covent Garden di Londra ed era firmato registicamente da Hofesh Shechter (anche coreografo) e John Fulljames, mentre scene e costumi erano ideati da Conor Murphy. La drammaturgia dello spettacolo era basata sul concetto che il “mito” è sempre attuale e anche una musica barocca può trovare spazi e invenzioni creative moderne. Dunque niente di spettacolare o effetti teatrali di antica memoria ma un dramma odierno in cui la recitazione e la coreografia sono il binomio portante. Altra importante peculiarità dello spettacolo è stata quella di non disporre l'orchestra in buca ma su una pedana mobile che durante l'esecuzione scende e sale. Soluzione anche originale e per alcuni aspetti funzionale, tuttavia l'acustica era diversa e a volte ridotta perché l'ensemble strumentale era troppo arretrato rispetto la sala. La soluzione drammatica della vicenda di Orfeo che deve assimilare il lutto è chiara e precisa ma non emozionante, e nel finale poche soluzioni riescono, a scapito di una staticità incomprensibile. La creatività dello spettacolo alla fine lascia poca traccia. I costumi sommari non disturbavano ma non erano degni di ammirazione, forse destava perplessità la dorata giacca di Amore. Quello che invece non funziona proprio è la coreografia del balletto, che si pone come un unico assieme ai tre solisti nel corso dell'opera, ma i passi di danza erano disarmanti per mancanza di stile, e nulla avevano dell'evocazione dello spirito della “riforma” che gli autori avevo impresso. E questo pur avendo a disposizione una compagnia di danza bravissima: Hofesh Shechter Company.

Positiva nel complesso la prova di Michele Mariotti, direttore e maestro concertatore, il quale ha saputo con buona perizia contrastare i momenti lirici contrapposti a quelli drammatici e di furia, come un'onda in piena di suono che fluttua in un mare variegato. Il suono era nitidissimo, variegato e pulito. Talvolta cadeva nel classico difetto del grigiore di una direzione non del tutto colorata e un impeto più incisivo non avrebbe guastato pur collocandosi sul gradino della buona performance. Non sono a conoscenza se sua sia stata la scelta di non utilizzare il cembalo, che avrebbe offerto un apporto diverso e più rilevante alla partitura.

Protagonista era Juan Diego Florez, oggigiorno forse il miglior tenore adatto per il ruolo. La prova, davvero ardua, è superata con successo, infatti la voce del tenore peruviano è sempre luminosa e musicale, la tecnica di cui sappiamo da anni gli permette un canto forbito con colori molto accattivanti, per non parlare del registro acuto sempre sfavillante. Memorabile l'esecuzione di “L'espoir renaît dans mon âme” con le difficili colorature, raramente udite in questa forma. Scenicamente molto impegnato ed efficace nel ruolo, nel quale è capace di trovare un fraseggio variegato nelle varie scene, accusa stranamente un affaticamento nel finale, e l'aria più conosciuta (J'ai perdu mon Euridice) seppur brillantemente eseguita era sotto le attese. Resta scontato che comunque ci troviamo di fronte a un grande artista che ha aggiunto un tassello importante al lungo catalogo dei ruoli interpretati, e quantomeno non rossiniano.

Christiane Karg, Euridice, è cantante corretta ma senza particolari qualità. Gli accenti sono anche pertinenti ma senza grandi sfaccettature, l'esecuzione dell'aria e soprattutto del terzetto non va oltre l'ordinarietà. Molto meglio l'amore di Fatma Said, che dona al personaggio una vivace spontaneità con una vocalità rifinita e brillante.

Una menzione particolare merita il Coro del Teatro alla Scala, diretto da Bruno Casoni, che s'impone negli importanti interventi con classe superiore per straordinaria compattezza e grande partecipazione stilistica.

Stranamente si sono registrate molte assenze di pubblico in teatro, forse il titolo ha un po' spaventato, ma alla fine ci sono stati grandi applausi convinti e ovazione per Florez, anche se lo spettacolo, ascoltando i commenti, non è piaciuto molto.

Lukas Franceschini

15/3/2018

Le foto del servizio sono di Brescia e Amisano-Teatro alla Scala.