RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

L'OSN inaugura con Martha

Non si poteva immaginare un esito migliore per l'inaugurazione della stagione 2023-24 dell'Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai (OSN). Riflettori e telecamere nel foyer , diretta TV su Rai 5, Radio 3 e Rai Play, fiori a ornare il palco, presenze di spicco nel parterre, un nutrito numero di critici: la serata di giovedì 26 ottobre 2023, di cui si riferisce, ha registrato il tutto esaurito all'auditorium Arturo Toscanini di Torino, come pure la replica di venerdì 27. D'altronde, il richiamo di nomi del calibro di Martha Argerich e Fabio Luisi, che collaborano qui per la prima volta, e un programma a base di Beethoven e Cajkovskij non avrebbe potuto sortire altro effetto.

Un programma che con arguzia esula dai lavori più eseguiti di Beethoven, contemplando il Concerto per pianoforte e orchestra nº1 in do maggiore Op.15, di rara esecuzione (in questa sala mancava dal 2017). Concerto “numero uno” secondo l'ordine di pubblicazione, “numero due” in ordine di composizione, esso appartiene a quel gruppo di lavori concepiti da Beethoven per costruirsi una fama come pianista e compositore, da portare in tournée per farsi conoscere, sulla scia di Mozart prima e di Chopin dopo, scritto fra il 1795 e il 1798, revisionato nel 1800 e pubblicato nel 1801.

Parlare di Martha Argerich vuol dire tirare in ballo un mostro sacro del pianismo contemporaneo, e dal vivo si capisce più che dalle registrazioni: sotto le sue dita scorre una gamma variegatissima e pressoché infinita di sfumature, una tavolozza espressiva difficilmente esprimibile a parole, che usa per proiettare sulla parte solistica una luce e un contenuto altamente originali e che vitalizza anche quei passaggi esornativi di puro sfoggio tecnico. È maleducazione dire gli anni di una signora: ma a ottantadue anni la precisione dei trilli e delle agilità, mai affastellate ma anzi sempre belle sgranate, e la capacità di scavo coloristico che sfoggia, il rilievo dato ai crescendo e ai diminuendo e alle voci interne, hanno dell'incredibile. Colpisce anche la scelta di non eseguire l'ultima cadenza scritta da Beethoven, del 1809, ma una più ridotta: sebbene di pugno dell'autore, essa appartiene, e si sente, a un'altra fase compositiva, che sconfina in pieno stile eroico. Ricorrendo a una cadenza più ridotta e stilisticamente più affine al resto del Concerto, la Argerich dimostra un'intelligenza interpretativa, potremmo dire, superiore a quella di Beethoven (perdonami, Ludwig…).

Luisi non è da meno, e anzi si fa quasi da parte per permetterle di rifulgere. Dapprima, mantiene l'esposizione orchestrale dell'Allegro con brio d'apertura su toni sommessi, come un segreto confidato all'orecchio; poi si allarga nei pieni orchestrali e nei passaggi più luminosi, ma conserva il buon gusto di trattarli con la tronfia e compiaciuta pomposità un po' sorniona dell'Haydn ultima maniera, dai cui lombi in fondo deriva. Poche battute bastano, tra l'altro, per accorgersi che l'OSN è in gran spolvero e vuol dare il meglio: nette e precise le entrate, bel suono smagliante nei momenti marziali, coesione e coordinazione: c'è tutto. Geniale il cono d'ombra che riesce quasi letteralmente a proiettare sul pubblico, nella sezione in minore dello sviluppo, assottigliando il suono fin quasi a spegnerlo, per poi attaccare la ripresa con piglio più vivo, come un volano che si rimette in moto. E infine, ecco far finta di concludere il movimento in piano, per poi galvanizzare il pubblico all'ultimo. Il primo Beethoven amava sorprendere così, con queste sterzate a sorpresa (lo fa anche in altre composizioni giovanili), e ricorre allo stesso trucchetto anche nel Rondò conclusivo, condotto con spirito brillante e scherzando come vuole l'agogica, sostenuto da un virtuosismo scoppiettante.

Ma è nel Largo centrale che si opera il miracolo, espansione degli Adagi mozartiani, ma non ancora romantico in piena regola, eppure già etereo come un notturno chopiniano. I fasti esteriori restano esclusi: in questa lettura non c'è posto per languori o mollezze, soltanto per apollinea sonorizzazione della levità, per l'eleganza astratta, per il limpido fraseggio della Argerich, che galleggia sfumando su un tappeto morbidissimo degli archi. La conclusione è un sogno che si chiude, e contrasta magnificamente con lo sprint finale del Rondò.

I numerosi richiami sul palco e i prolungati applausi convincono Martha a regalare un fuori programma: la Gavotta dalla Suite inglese nº3 in sol minore BWV 808 di Johann Sebastian Bach, con quel gioiellino in sol maggiore incastonato in mezzo che è la Gavotta II o Musetta, che tutti i pianisti alle prime armi hanno provato a eseguire. Vi è la ricerca di un'esecuzione moderna, con l'uso del pedale e un forte accento sugli abbellimenti dissonanti della mano sinistra, fra il romantico e il novecentesco (nella serata del 27 ha invece eseguito la pagina d'apertura delle schumanniane Kinderszenen Op.15).

La serata prosegue con la Sinfonia nº5 in mi minore Op.64 di Cajkovskij, composta fra il maggio e l'agosto del 1888 nel buen retiro di Frolovskoe ed eseguita per la prima volta sotto la sua direzione a Pietroburgo il 17 novembre dello stesso anno. Se la Quarta era nata sotto il flusso di pessimismo dove il disastroso matrimonio di facciata con Irina Milijukova era solo uno dei motivi, la Quinta nasce undici anni dopo quasi come sfida per dimostrare a se stesso di avere ancora qualcosa da dire in campo sinfonico (e musicale in genere: per dimostrare di non essere finito). Tuttavia, se la vena compositiva tornava a sgorgare in maniera fresca e originale – il circolare di uno stesso tema per tutti e quattro i movimenti della sinfonia, quasi berlioziana idée fixe, l'introduzione di un valzer in luogo dello scherzo, ecc. –, pubblico e critica non si spellarono le mani ad accoglierla, tra un Rimskij-Korsakov che, pur educatamente, la bocciò e un Brahms che, pur diffidando di lui, apprezzò la composizione ma rimase perplesso sul finale. Il tutto congiurò per una nuova ondata di pessimismo. Qualcosa di brahmsiano c'è, in effetti, nella Quinta, nell'orchestrazione massiccia tipicamente tardoromantica, coi tre tromboni rinforzati dalla tuba, nell'elaborazione profonda dei temi, anche se diversa da quella dell'Ambughese. C'è anche tanta cupezza, e ciò che avrebbe potuto dare un po' di lucentezza, come i piatti, ancora presenti nella Quarta, o un po' di angelicità, come l'arpa, resta escluso. Il finale, nonostante le dichiarazioni di Cajkovskij, sembra ricalcare quello della Quarta, un positivismo più voluto che sentito, un autoconvincersi di quell'«andrà tutto bene» che anche in tempi recenti non ha convinto poi molto…

Con Luisi si rimane sempre un po' perplessi, quando si trova a maneggiare orchestre allargate. Un'avvisaglia c'era già stata con la “Resurrezione” di Mahler nel concerto d'apertura della stagione scorsa, dove le deflagrazioni sonore sembravano un partito preso per fare più rumore possibile. A contatto con la partitura di Cajkovskij, ritornano le stesse impressioni. Maestro delle volatine dei legni e dei ricami attorno al tema principale, il Russo ha bisogno di leggerezza pur nella drammaticità, e gli ottoni che rinforzano l'armonia non devono irrompere sulla scena melodica, soffocandola. Detto, fatto, succede esattamente l'opposto, per lo meno in diversi passaggi del primo e dell'ultimo movimento. L'Andante che apre la Sinfonia convince, con quel livido clarinetto – del bravissimo Luca Milani – che intona una sorta di esangue marcia funebre, e tra lui e gli archi in sottofondo, il clima fosco è assicurato. Ma all'avviarsi dell'Allegro con anima, l'orchestra fatica ad essere scattante, e gioco forza rallenta il tempo, attestandosi ad occhio e croce su un Allegro moderato o un Andante con moto. E l'“anima” arriva molto distante. Ne risulta un andamento impacciato, a tratti travolto, come detto, dal fragore degli ottoni. Il Finale. Andante maestoso – Allegro vivace risente anch'esso di questa condotta, ma meno, anche perché il suo ruolo, quello di concludere trionfalmente la Sinfonia, è stato in qualche modo psicologicamente preparato dai movimenti precedenti, e in qualche modo ci si aspetta che risolva la Sinfonia nel clamore e nel giubilo. Il pensiero che Luisi sia più a suo agio manovrando orchestre più piccole si ha con i movimenti centrali, l'Andante con alcuna licenza e il summenzionato Valse. Allegro moderato, dove la strumentazione alleggerita permette, nel primo, la pura cantabilità dei temi, servita a dovere dagli impeccabili Francesco Mattioli (primo corno) e Nicola Patrussi (primo oboe), coi loro assoli puliti e penetranti, nel secondo, la scorrevolezza che ricorda e caratterizza i più famosi valzer dei balletti. Ma resta la sensazione che lo smalto dell'esecuzione sia appannaggio più di un'OSN davvero in gran spolvero che di Luisi; non basta lucidare la superficie, se l'interpretazione non scava a sondare le pieghe della psicologia che sostenta il brano.

Il pubblico tuttavia gradisce e applaude fervidamente e a lungo, sull'onda degli ultimi accordi scintillanti del Finale. La nuova stagione, come dicevo, non avrebbe potuto cominciare meglio.

Christian Speranza

31/10/2023

Le foto del servizio sono di PiùLuce.