RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

Polidoro

a Vicenza in Lirica

Fiore all'occhiello del Festival Vicenza in Lirica è stata l'esecuzione dell'opera (propriamente tragedia da rappresentarsi in musica in cinque atti) Polidoro di Antonio Lotti, su libretto di Agostino Piovene, in prima rappresentazione in tempi moderni. Il compositore Lotti appartiene alla folta schiera di musicisti che operarono nella Repubblica Veneziana, allora fulcro culturale musicale rilevante non solo in Italia ma a livello europeo. Purtroppo tutta la produzione musicale di quel periodo cadde nell'oblio nell'800, e nel secolo successivo s'iniziò, con molta pacatezza, uno studio e una riproposta sia esecutiva sia discografica. Tuttavia, il solo autore che ha avuto un giusto e ragionevole riscontro è stato Antonio Vivaldi, mentre altri, del calibro di Tommaso Albinoni, Baldassarre Galuppi, Francesco Cavalli, o sono stati completamente dimenticati o riproposti saltuariamente. Mi pare doveroso riservare qui un elogio e allo stesso tempo un caro ricordo a Claudio Scimone, scomparso in questi giorni, poiché fu uno dei primi assieme al "suo" ensemble I Solisti Veneti a riproporre il repertorio barocco veneziano. Oggigiorno il vento è leggermente cambiano e si può registrare un notevole interesse per questi autori, anche se è giusto porre l'accento sul fatto che la loro riproposta comporta un lavoro di studio il quale parallelamente offre cause di approfondimento sul valore di queste musiche, e che solo la prassi esecutiva può confermare non solo il valore ma soprattutto lo stile e il linguaggio di un periodo che senza esagerare possiamo definire dorato.

Un plauso va attribuito anche al Festival Vicenza in Lirica, il cui ideatore è Andrea Castello, il quale ha avuto il coraggio di mettere in scena un'opera totalmente dimenticata confermando che la manifestazione vuole ritagliarsi uno spazio che potremmo chiamare elitario ma di notevole interesse. Polidoro fu rappresentato al Teatro Grimani di Venezia durante la stagione di Carnevale del 1714 con un cast all'epoca eccelso, per fama e bravura. Protagonista era Francesco Bernardi detto “il Senesino”, assieme a Diamante Maria Sarabelli detta “la Diamantina”, e alle voci gravi di Giovanni Battista Cavana e Giuseppe Maria Boschi. Chiara dimostrazione della valenza vocale della scrittura di Lotti, peraltro sposato a un altro celebre soprano, che si dipana in languidi cantabili, furiosi accenti e struggenti espressioni dell'animo e della coscienza umana a fronte delle inevitabili scelte drammatiche poste dalla vita. Se il libretto racchiude uno stile di buona espressione, lo stesso non può dirsi per la trama, piuttosto complicata e poco chiara, che si sviluppa in scambi di persona, lotte intestine per il potere, ma con il trionfo finale del bene sul male e l'elevazione di valori come l'amicizia e dell'onore.

A un primo ascolto è possibile definire la musica di Lotti elegante e di forte espressione, la quale non si distacca dai canoni settecenteschi e nella quale si ravvisa anche uno stile tipico della scuola napoletana. L'arte musicale di Lotti s'identifica per un'espressione molto incisiva nel recitativo, peraltro molto prolisso, ma trova particolare intuizione nell'armonia, del tutto originale, e in uno strabiliante virtuosismo nelle arie. Infatti, tallone d'Achille dello spartito è la drammaturgia, ma all'epoca la trama non osservava canoni così rigorosi come nel secolo successivo. Eppure nel corso della rappresentazione abbiamo avuto il piacere di ascoltare preziose e rilevanti arie e duetti di armonica fattezza.

La proposta di Polidoro si è potuta realizzare per lo studio e la ricerca di Francesco Erle e Franco Rossi, valenti docenti che da qualche tempo scovano musica veneziana del 700. Saputo di un manoscritto di Polidoro conservato nel Conservatorio di San Pietro a Majella di Napoli, si sono adoperati per crearne un'edizione per la messa in scena. Il festival ha accettato una sfida non da poco nel voler ridare vita all'opera anche perché l'intera produzione si è avvalsa di una specifica selezione dei cantanti, effettuata tra giovani con attitudini a questo repertorio.

Come più volte affermato allestire un'opera, anche del sei-settecento, al Teatro Olimpico è sempre ardua impresa poiché i vincoli architettonici pongono pesanti limiti al teatro musicale come viene inteso oggi. Il regista Cesare Scarton sviluppa il suo lavoro sulla recitazione dei singoli, i quali tentano in tutti i modi, e spesso riuscendoci, di esprimere l'esaltazione dei valori dell'amicizia, della passione, dei conflitti personali e sociali. In tale ottica non ci sono scenografie, il regista afferma che lo spazio scenico dello storico teatro è già una cornice ideale e non ha voluto alterare la bellezza del luogo. Mirabile è il lavoro del costumista Giampaolo Tirelli che realizza dei sontuosi abiti settecenteschi ispirati a dipinti dell'epoca, anche se è doveroso rilevare che in più occasioni i cantanti erano, per inesperienza, impacciati nel muoversi con tali imponenti vestiti che catalizzavano l'attenzione dell'intero teatro.

Direttore e concertatore era Francesco Erle, il quale come predetto ha curato l'edizione ma è dovuto intervenire per rimediare all'assenza della cifratura del continuo, più precisamente la tecnica delle armonie da giustapporre alla linea del basso. Come riportato dallo stesso Erle, è ipotizzabile che al cembalo sedesse lo stesso Lotti, una prassi abituale al tempo. Erle, a seguito di uno studio certosino sulle pagine di Lotti, ha trovato una valida linea espressiva sugli stilemi armonici e contrappuntistici per tutta l'esecuzione, utilizzando strumenti che felicemente si accostano allo stile. Inoltre, il direttore, grande esperto di barocco, incarna uno stile esecutivo di ampia espressione, contraddistinto da tempi molto serrati, mantenendo però una rilevante incisività nel fraseggio e in particolare nelle parti drammatiche. L'apporto dell'Orchestra Barocca Vicenza in Lirica è decisivo per valida professionalità e rigore stilistico-filologico, e tra essi il clavicembalista Andrea Maron brilla di luce propria.

La compagnia di canto costituita da giovani interpreti dimostra la minuziosa preparazione affrontata, dove l'espressione è punto di riferimento. Federico Fiorio, Polidoro, è un giovanissimo controtenore con voce molto duttile soprattutto nel registro acuto, ma pecca in un'esecuzione sommaria nelle arie di furore, dove spesso è inespressivo e il recitativo dovrebbe avere più smalto. Vista la giovane età ci auguriamo che possa trovare soluzioni vocali più peculiari. Caratteristiche che sono affini anche all'esibizione di Danilo Pastore, Deifilo, il quale dimostra anche una certa eleganza nei passi più elegiaci, meno in quelli drammatici. Molto meglio il secondo contraltista Enrico Torre, Pirro, che con voce più rifinita soprattutto nel grave conferisce al personaggio un peculiare vigore, il quale gli permette una splendida esecuzione dell'aria nel III atto.

Molto bravo Davide Giangregorio, Polinestore, un basso ben preparato cui si somma una timbratura solida che gli permette di essere efficiente negli interventi solistici con grande foga drammatica. Meno rifinito, ma con voce importante, è stato Patrizio La Placa, Darete, nel quale era lo stile che non convinceva del tutto, ma l'aria del terzo atto è stata ben eseguita. Anna Bessi, Iliona, dimostrava una sostanziale correttezza anche se talvolta la voce era intubata, ma il recitativo era molto espressivo. Maria Elena Pepi, Andromaca, è un soprano che fa risaltare il carattere e il canto affettato del personaggio con una linea di canto ben rifinita.

Caloroso consenso al termine con applausi scroscianti per tutti i protagonisti. Un vero successo che ha premiato il coraggio dell'organizzazione nel presentare un titolo cosi peculiare, per il quale tutte le due recite programmate registravano il tutto esaurito.

Lukas Franceschini

2/10/2018

Le foto del servizio sono di Colorfoto Artigianale-Vicenza.