RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

Verdi funebre e trionfale

Aveva definitivamente lasciato l'Italia per Parigi nel 1859; aveva smesso di comporre (almeno per il teatro) trent'anni prima siglando con il Guillaume Tell l'inizio del grand opéra e la fine della sua carriera di operista; ma quando Gioachino Rossini morì,  il 13 novembre  1868, in Italia la sua scomparsa venne avvertita come la perdita di una gloria nazionale, per commemorare degnamente la quale sarebbe occorso lo sforzo congiunto dei maggiori ingegni musicali italiani viventi. Così almeno la pensava Giuseppe Verdi. Nel 1868 i suoi "anni di galera" erano ormai lontani e la sua popolarità al culmine; da una decina d'anni aveva rallentato la produzione teatrale per dedicarsi all'amata campagna e al suo possedimento di Sant'Agata. Di ritorno da quella Parigi che appena l'anno prima, nel 1867, aveva accolto la prima del Don Carlos, chiese a undici compositori italiani di collaborare a un Requiem collettivo per la morte del collega che aveva riassunto nella sua figura la generazione di operisti precedente. Per sé tenne il Libera me, Domine conclusivo, lasciando l'inizio a un (oggi) poco popolare Antonio Buzzolla, adriese di due anni più giovane, che compose l'Introitus e il Kyrie. (Tanto per ribadire che molto spesso il palinsesto delle stagioni lirico-sinfoniche propone null'altro che la punta dell'iceberg  di un patrimonio culturale sommerso e negletto che varrebbe la pena riscoprire, con buona pace di alcuni enti che si limitano a riproporre titoli più che abusati poiché a lor nulla per l'oro sconviene… Benché pur di quello si campi). Ma il progetto non vide mai la luce, e quel frammento per soprano, coro e orchestra restò chiuso in un cassetto per cinque anni, fin quando, alla morte di Alessandro Manzoni,  il 22 maggio  1873, Verdi lo rispolverò per dargli forma compiuta e comporre un grandioso Requiem, questa volta tutto da solo, per un'altra gloria nazionale. In un anno circa la partitura fu pronta: la composizione di un Verdi che si accostava al sacro dopo decenni di repertorio profano, con esiti talvolta disinvoltamente oleografici (il celeberrimo attacco del  Dies iræ) e, nel caso della conclusione del Sanctus, scopertamente teatrali, ma di fascino innegabile e ricca di numerosi spunti di riflessione. L'impianto è grandioso, sulla falsariga della Grande messe des morts Op.5 di Hector Berlioz, la cui seconda revisione risale proprio, guarda caso, al 1867, e chiama in causa quattro solisti, un coro e un'orchestra rimpolpata nella sezione delle trombe, collocate fuori scena per ottenere un effetto di botta e risposta in eco con quelle di fila (nel Tuba mirum). Ma non deve credersi soltanto il lavoro di un operista incapace di diversificare il mestiere, «un'opera in veste chiesastica», per dirla col giudizio un po' miope di von Bülow. Al contrario, la grandiosità è qui mezzo espressivo ineludibile, cifra attraverso cui prende corpo un sentimento umano, drammatico, direi quasi sanguigno dell'uomo che si interroga sul significato della morte, rifuggendo pertanto i codici espressivi dei  Requiem vecchia maniera, da quello più sulfureo di Mozart a quello disteso ed etereo di Johann Christian Bach (sarebbe da approfondire la complessa personalità religiosa di Verdi, troppo spesso e troppo a lungo liquidata come anticlericale e agnostica  tout court ). Un Verdi “funèbre et triomphal”, parafrasando sempre il Berlioz dell'Op.15, che non per nulla catturò il pubblico fin dalla sua prima esecuzione,  il 22 maggio  1874 (primo anniversario della morte di Manzoni) nella chiesa di San Marco a Milano. E continua a catturarlo anche adesso.

Lo ha catturato anche giovedì 25 ottobre 2018, in occasione del secondo concerto della stagione dell'Orchestra Sinfonica Nazionale (OSN). James Conlon, direttore principale, l'ha saputa guidare in un'esecuzione attenta, accurata, musicalmente trasparente. Da parte sua l'orchestra ha risposto ai comandi come una macchina ben collaudata in ogni ingranaggio, fugando i (pochi) dubbi che il "Titan" mahleriano aveva fatto nascere la settimana scorsa.

Preparato da Martino Faggiani, il Coro del Teatro Regio di Parma ha dato prova di grande volume vocale, pur nella dimensione di un normale coro da teatro. Tale volume non si accompagna, tuttavia, ad una soddisfacente nitidezza d'insieme. Le voci, specialmente nei passaggi in forte e in fortissimo, paiono perdere di vista il bilanciamento sonoro, si (con)fondono, dando l'impressione di fare a gara a chi grida di più. Difetto riscontrato, ripeto, solo nei passaggi in forte e in fortissimo; probabilmente, riuscendo ad ascoltarsi l'un l'altro, nei piani rendono meglio e l'amalgama delle voci risulta più omogeneo, come nel soavissimo e sommesso Requiem æternam che apre la composizione.

Pezzo forte della serata è stato però il quartetto di solisti. I nomi di Anna Pirozzi, soprano, e Marianna Pizzolato, contralto, non hanno bisogno di presentazioni. Entrambe hanno dato un'interpretazione molto sentita delle loro parti: non mere latrici impersonali del messaggio in latino, ma quasi personaggi scavati nella loro psicologia ricavata dal testo loro assegnato. La Pirozzi è dotata di timbro caldo, voce piena e vibrante, da soprano drammatico. Rarissime le note non ben emesse e leggermente gridate; per il resto, un canto avvolgente e pieno di lirismo, come pure quello della Pizzolato, il cui timbro chiaro e la cui facilità nel raggiungere le note gravi fanno dell'artista l'interprete ideale per questo repertorio. A loro si affiancano il tenore Saimir Pirgu e il basso Riccardo Zanellato, entrambe voci di calibro di poco inferiore alla loro controparte femminile ma comunque assai valide. Pirgu ha il pregio di una voce squillante, anche se non esageratamente, cosa che gioca a suo favore nei pezzi d'ensemble, dove riesce a spiccare ma nel contempo a concertare con gli altri. Un po' più di corposità non sarebbe guastata, e probabilmente il suo repertorio ideale sarebbe quello di brani e autori un po' più leggeri rispetto all'ultimo Verdi. Stesso discorso per Riccardo Zanellato, basso dal timbro chiaro e di medio volume, che nonostante ciò riesce a sostenere la parte con decoro e con adeguata efficacia.

Christian Speranza

31/10/2018

La foto del servizio è di Maria Vernietti.