RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

Hic sunt leones

Se è vero, come chiosava Guglielmo da Baskerville, che i libri parlano di altri libri – e chi meglio di lui, creatura ibrida tra medioevo e Sherlock Holmes, potrebbe saperlo – allora è possibile che anche il teatro parli di altro teatro: ed è questa la sensazione che si è avuta il 20 marzo assistendo, nei locali della scuola di teatro Umberto Spadaro, a Palazzo Platamone di Catania, alla prima de L'indecenza, atto unico tratto dall'omonimo romanzo di Elvira Seminara, ridotto e adattato da Rosario Castelli.

Velata la scena, il pubblico distribuito in due settori paralleli, abolite di fatto le posizioni relative tipiche del teatro (un'unica platea, da una prospettiva frontale rispetto al palcoscenico), gli attori agivano in un gigantesco cubo che consentiva ai due settori di assistere allo stesso spettacolo, separati da un velamen che appannava e sfocava la visione, attuando però un'immersione ambigua nel mondo finzionale che agiva in una scenografia curata sin nei minimi particolari, stanza di soggiorno, con piante, lumi velati, divano, cassapanca, un tavolo e un letto sullo sfondo, con un insolito ramo contorto (l'olivo di Montalbano?), dal quale pendevano piccole gabbiette di vimini, calamitanti di fatto lo sguardo come le suggestive vetrate a grandi fiori dal bellissimo cromatismo. Atmosfera rarefatta, accogliente nelle tonalità brunite, ma non dispersiva, anzi stranamente concentrazionaria, con le piante sparse dappertutto, selva domestica di sentimenti, ma anche ricettacolo di larve. Una regia, quella di Giampiero Borgia, coadiuvata dalle luci di Franco Buzzanca e da una scenografia di rara efficacia, curata da Giuseppe Avallone, il cui compito, sin dall'inizio, era forse quello di irreggimentare le idee dello spettatore, fornendo ulteriore alimento alla rombante intertestualità della pièce.

Nutrito di echi brancatiani, e qui era esplicito il rimando a La Governante, con una borghesia spruzzata del veleno moraviano che stemperava e snaturava la sanguigna sensualità siciliana, invano evocata dal caldo torrido, dallo scirocco, dai faraglioni e dal vulcano, il testo dipanava un triangolo tipico, due donne ed un uomo, Ludmila, colf ucraina, un Marito e una Moglie, cristallizzati nei loro ruoli fino a perdere identità: due borghesi, pallidi fiori di serra snervati dal caldo di un autunno impietoso (non certo un bellissimo novembre!), ormai condannati alla sterilità fisica ed esistenziale. Una bimba nata morta, che ha decretato la sterilità della moglie, un mai più gettato sulla scena, pietra in uno stagno troppo pigro per rimandare un suono. Ludmila è qui l'altro, la vita, magari stupida e incosciente, ma è vita, moto che genera altro moto, ridestando sentimenti acquattati, echi di sensualità che lentamente, insinuanti, cominciano a pervadere la scena.

Ambigua, come bruciante di febbre, demone meridiano che si agita in una pozza stagnante, la giovane serva ridesta i sensi del Marito, ma è nella Moglie che dilaga come una fornace, in un indecens (nel senso latino di non conveniente) groviglio di sensazioni, che ne fanno amante ma anche bambina, bambina ritrovata da curare, vezzeggiare, rimproverare e amare. L'incesto mentale vagola per la scena, nelle notti insonni per la calura, per i rumori, per gli oggetti perduti e poi ritrovati, nel ripetersi di spezzoni di scena, come in un déjà vu allucinatorio, e alla fine esplode, preannunciato dai topi che infestano la stanza chiusa che avrebbe dovuto essere la camera della bambina mai avuta, finis Africae dove i leoni sono ratti, spazzatura, assorbenti, e i boxer del marito scovati dalla moglie nel suo vagabondare agorafobico per la casa. I topi: i messaggeri (camusiani?) della peste, della peste che avvinghia e soffoca Orano, la peste che fa esplodere i bubboni, che sospende la vita normale, che dà la stura a tutti i sentimenti e a tutte le passioni, perché non c'è più tempo

Ed ecco l'epilogo, in un amplesso tra le due donne alla fine del quale Ludmila forse morirà, perché tutto possa essere come prima, perché si possa ricominciare la non esistenza di un inferno che si racchiude in una stanza…

Un testo denso, che molto rimanda allo spettatore, che non esita sulla soglia di una passione morbosa tra donne, rinunciando però ad esplicitare l'incesto ad essa sotteso. Un testo che la regia intelligente di Gianpiero Borgia ha saputo valorizzare ben al di là dalle possibilità drammaturgiche in esso realmente insite, e che ha trovato in David Coco un interprete attento, misurato, pur se a volte troppo algido per il ruolo. Brava Elena Cotugno, una Ludmila ambigua, ingenua quanto basta, espressiva nelle movenze e dalla dizione notevole. Valeria Contadino ha trovato nel ruolo della Moglie la possibilità di una recitazione a tutto tondo, agevolata dalla sua sanguigna naïveté: si è mossa per la scena con elegante disinvoltura, riuscendo a graduare l'escalation di follia del personaggio, evidenziandone i lati oscuri senza cedimenti, con una gestualità a tratti rattenuta, evitando le facili sbavature che avrebbero fatto scadere nel caricato un personaggio tanto complesso e difficile. Una buona prova attoriale, quella di tutti i protagonisti, che mostrava l'attento lavoro di prove che ha certamente preceduto il debutto della pièce.

Giuliana Cutore

22/3/2015

Le foto del servizio sono di Antonio Parrinello.